«Chiudo per mancanza di ricambio generazionale». È l’affermazione che si sente sempre più frequentemente tra le aziende, nonostante, si dice, vi sia un ritorno all’agricoltura e all’allevamento. Sarà, ma intanto chiudono aziende storiche. Così rischia di scomparire anche uno degli storici caseifici che da trent’anni fa la storia del latte di capra in Veneto, cioè la Capreria di Montegalda di Enrico Grandis, 65 anni, allevatore, casaro e commerciante. I suoi prodotti da un trentennio rientrano nei menù blasonati, nelle botteghe del gusto, nei premi di qualità e mercati biologici dell’intero Nordest, con estimatori increduli alla notizia della sua possibile chiusura entro l’anno, «se non arriva qualcuno a portare avanti l’attività».
Enrico Grandis della Capreria, casaro a Montegalda dal 1981
«Non uno qualsiasi, perché questo è un mestiere duro, che pretende competenza e dedizione», afferma il casaro che dal 1981, con la moglie Laura Gandolfini, ha la sua attività nel cuore della campagna di Montegalda. Età e qualità della vita, i fattori principali della paventata chiusura aziendale: «Superata la soglia dei settant’anni - precisa la moglie Laura -, sento il bisogno di avere ritmi più tranquilli, che non sono certo quelli di una azienda come la nostra con una economia circolare e famigliare, dove tutti fanno tutto. Dove si passa dal campo al prodotto trasformato, tutto rigorosamente “bio”».
Ridotti i fatturati: l'azienda non sta al passo con le richieste
La Capreria, infatti, non è un’azienda in crisi: «Abbiamo ridotto i fatturati solo perché fatichiamo a stare al passo con le richieste - aggiunge Enrico -, tanto che siamo una azienda sana, con standard di produzione molto alti. Continuiamo a ricevere richieste da grossisti, dettaglianti e ristoranti, ma abbiamo attuato una politica di contenimento per il benessere nostro e degli animali che alleviamo».
Da 300 a 140 capre
È il motivo per cui hanno dimezzato le capre in stalla: «Da 300 siamo passati oggi a 140 capre “camosciate”, che rappresentano il cuore dell’azienda. Tutte però felici», esclama il casaro. Basta vedere come lo accolgono quando entra in stalla; qui il benessere animale è dettato dal pascolo esterno, dal pullulare di capretti liberi di scorazzare, dalle capre anziane accovacciate. «Da sempre le nostre capre vivono e muoiono in azienda - precisa l’allevatore -, questo perché dopo una vita con noi, ci pare il minimo doverle accudire fino alla loro naturale fine, contro ogni logica di allevamento».
La filosofia dell'azienda e il mancato passaggio generazionale
È questo il vero valore aggiunto della “Capreria”: «È la nostra filosofia di una vita, che oggi ci costringe a doverci ridimensionare se non chiudere, se non troveremo il giusto passaggio di testimone». Un passaggio che la coppia sperava avvenisse con i figli Tommaso e Arianna: «Invece, per amore hanno scelto altre vie. Nostro figlio ha un ristorante a Trieste, e Arianna dopo aver lavorato per anni in azienda è convolata a nozze a Breganze, dove oggi si occupa con il marito di un’azienda vinicola». Così la Capreria oggi è composta da cinque persone: i coniugi Grandis, due giovani e volenterosi collaboratori, Gabriele e Lorenzo, dediti alla stalla ed un aiuto part time in caseificio da parte di una signora.
Il problema "latte"
«Il problema è dal latte in poi - precisa Enrico -, dalla trasformazione alla commercializzazione. Una complessa filiera dove i giovani faticano a tenere il passo. Ho avuto qualche giovane speranza, che a parole sembrava volere intraprendere l’attività. Poi nei fatti, quando si è trattato di fare impresa, hanno mostrato tutte le difficoltà del caso. Così siamo rimasti soli». Quasi una sentenza, la sua. «Un moderno allevatore-produttore, deve avere molti elementi: capacità di sacrificio, creatività, determinazione, perché un tempo tutto era nuovo. Noi siamo stati fortunati nel realizzare il nostro sogno. Oggi invece, tutto è già stato fatto e pensato». Sarà per questo che nessuno suona al suo campanello? «Io spero ancora - conclude Enrico - di trovare qualche formula, magari una coppia di soci, che impediscano alla Capreria di diventare un ricordo».