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Vicenza

Stanchezza cronica
«La mia battaglia
per sconfiggerla»

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La stanchezza cronica è considerata una malattia
La stanchezza cronica è considerata una malattia
La stanchezza cronica è considerata una malattia
La stanchezza cronica è considerata una malattia

VICENZA. «La sindrome da stanchezza cronica ti toglie la vita. Io sono fortunata perché riesco ancora a studiare, ma in futuro chi lo sa?». Ciò che le manca di più è la danza, la sua grande passione, ma Lucia Libondi negli ultimi tre anni ha dovuto rinunciare a tanto altro, dal lavoro alle serate con gli amici, fino a cose banali, come prendere il sole o, nei momenti di crisi, prepararsi il pranzo o farsi una doccia.

Perché in certi momenti è come se le batterie non si ricaricassero, ma senza la possibilità di cambiarle. La causa? Encefalomielite mialgica, altrimenti detta, appunto, sindrome da stanchezza cronica, una patologia sulla quale spesso si tende a ironizzare e che in Italia è ancora poco conosciuta, nonostante si stimi che ci siano tra i 200 mila e i 300 mila malati. Proprio per questi motivi non è stato facile ottenere una diagnosi quando Libondi, 39 anni, insegnante di danza e libera professionista in campo artistico, si è trovata a fronteggiare una situazione inaspettata e incomprensibile.

 

«È accaduto in modo graduale - racconta - con manifestazioni di stanchezza molto forti. All'inizio questa spossatezza durava qualche giorno, quindi davo la colpa allo stress. Poi queste giornate sono aumentate e nel giro di due anni il problema è diventato invalidante: mi svegliavo già senza energia, perché questa patologia non ti consente di recuperarle nemmeno nel sonno. E la cosa è peggiorata, a fine 2016 mi sono dovuta licenziare. Lo stesso anno, durante l'estate ho deciso di non ricominciare a insegnare danza, la cosa che mi è costata di più, ma ero totalmente priva di carica».

È iniziato anche il complesso percorso di visite ed esami in cerca di una diagnosi. «Inizialmente il mio medico mi aveva dato delle vitamine, ma dopo due anni era chiaro che non fosse solo quello. Un altro medico mi ha fatto fare nuovi esami. Intanto ero finita più volte al pronto soccorso per crisi respiratorie e palpitazioni frequenti e da lì mi hanno indirizzata a psichiatria». Una scelta che si è rivelata utile, almeno per far fronte a una parte del problema. «Mi hanno diagnosticato la depressione, ma siccome io avevo voglia di ballare, di fare cose, lo psichiatra ha anche voluto indagare cosa ci fosse dietro. È stato il primo a capirlo e la cura mi ha aiutata ad accettare il problema: ho lasciato tutto da parte e mi sono dedicata alla mia salute». A partire proprio dall'affrontare lo stato depressivo. «Ho dovuto abbandonare la vita sociale, non avevo l'energia per fare tardi, bere un bicchiere di vino, lavorare. È faticoso anche far capire alle persone con cui esci che stai male e che non si tratta solo di stanchezza. Per fortuna chi mi conosce sa che non sono pigra, ma è una cosa che dicono a molti».

 

La svolta, però, dopo mesi di terapia psichiatrica e psicologica, è arrivata grazie allo studio. «Avevo ottenuto una borsa di studio per frequentare un anno di filosofia in Belgio e i medici mi hanno consigliato di andare. Rinunciare sarebbe stato arrendermi e sono partita. Qui, poche settimane fa, è arrivata la diagnosi. Il Belgio è all'avanguardia in questo campo: ho parlato con il medico dell'università che mi ha mandata a fare degli esami specifici e ha fatto la diagnosi. L'università mi ha riconosciuto lo stato di disabilità e una serie di vantaggi, come poter portare l'acqua in biblioteca o avere più tempo per i lavori scritti. Ora riesco a studiare ma nei due o tre giorni a settimana di "crash" la spossatezza fisica è accompagnata da confusione mentale, quindi non riesco a fare nulla. E comunque mi ritengo fortunata, perché ci sono persone che sono completamente allettate e in situazioni drammatiche».

La consapevolezza, però, è stata anche un bruttissimo colpo. «Prima avevo la speranza che si trattasse di qualcosa di curabile, adesso, sebbene abbia conosciuto qualcuno che ne è uscito, so che le probabilità sono scarsissime e non ho certezze per il futuro. Facendo una vita regolare, riposando il più possibile e mangiando in modo molto attento riesco a gestirlo, ma ho paura di poter peggiorare e non riuscire nemmeno più a studiare». Oltre alle preoccupazioni pratiche, che durante il soggiorno in Belgio l'hanno spinta a promuovere un crowdfunding online, per sostituire il lavoretto con cui avrebbe voluto mantenersi. «È stata la prima volta che ho fatto "outing" riguardo alla mia situazione e ha avuto un forte impatto su chi mi conosce. Però, guardando al futuro, mi chiedo come farò a mantenermi, se non riesco a lavorare e non ho un aiuto statale. La speranza, comunque, c'è sempre». 

Maria Elena Bonacini

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