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Il duplice femminicidio

«Non commetterà reati». Il killer e il rebus attestati

Le candele e i fiori lasciati in ricordo di Lidija in via Vigolo (FOTO TONIOLO)
Le candele e i fiori lasciati in ricordo di Lidija in via Vigolo (FOTO TONIOLO)
Le candele e i fiori lasciati in ricordo di Lidija in via Vigolo (FOTO TONIOLO)
Le candele e i fiori lasciati in ricordo di Lidija in via Vigolo (FOTO TONIOLO)

Nelle prossime ore gli ispettori inviati dal ministro della Giustizia, Marta Cartabia, arriveranno a Vicenza e passeranno ai raggi x l’intero iter giudiziario che ha visto protagonista il pluriomicida Zlatan Vasiljevic. Ma la storia del killer che ha assassinato la sua ex moglie Lidija Miljkovic e quella che per qualche mese era stata la sua nuova compagna, Gabriela Serrano, forse non deve essere letta solo ed esclusivamente con il codice penale. 
Perché nel quadro complessivo altrimenti rischiano di rimanere sfocate alcune tessere che invece potrebbero essere state decisive nella sua tragica composizione finale. E in quelle tessere, purtroppo, potrebbero esserci stati dei “non detti”; dei “fraintendimenti”; forse banalmente dei passaggi dati per scontati sottovalutando la pericolosità del soggetto che tutti, per mesi, avevano avuto di fronte senza accorgersi del magma che stava covando dentro, pronto solo a esplodere.

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E allora proviamo a mettere un po’ di ordine, per quanto possibile. In una nota, licenziata venerdì, la procura, ripercorrendo la vicenda spiega come il giudice per l’udienza preliminare, Roberto Venditti, non aveva concesso a Vasiljevic né la sospensione condizionale della pena, né qualche mese più tardi l’attenuazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla sua ex moglie spiegando che Vasiljevic aveva «una concezione del rapporto uomo-donna di tipo padronale e dominante e che nemmeno l’avvio di un altro procedimento penale (quello che poi subirà 5 rinvii in meno di un anno) aveva in alcun modo scardinato e ridimensionato». Il gup poi sottolinea che «è ben vero che le relazioni del Serd e dell’associazione Ares (Centro per l’ascolto e il trattamento rieducativo di uomini autori di violenza domestica e di genere) hanno dato atto che attualmente il percorso riabilitativo e rieducativo sta avendo buon esito, ma trattasi solo dell’inizio di un programma di complessiva revisione del comportamento non sufficiente alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena». Ecco, siamo nell’estate 2020.
Pochi mesi dopo, il 2 febbraio 2021 la Corte d’Appello invece, riducendo la pena, concede a Vasiljevic pure la sospensione condizionale. Motivando la decisione con le valutazioni positive arrivate dal Serd e dall’associazione Ares: «A fronte di tali risultanze deve esprimersi una prognosi favorevole circa la futura astensione dell’imputato dalla commissione di altri reati». Il Serd in particolare dava atto, nel luglio 2020 «che tutti i controlli svolti dal 17 maggio 2019 al 26 giugno 2020 hanno avuto esito negativo» e che «l’esito del percorso è da considerarsi a tutti gli effetti positivo». Ares ricordava come il percorso di Vasiljevic era iniziato l’11 dicembre 2019 svolgendo «30 colloqui della durata di 50 minuti con uno psicologo dell’associazione, il dottor Giulio Gasparini. Il signor Vasiljevic si è presentato a tutti gli incontri con puntualità e sincero coinvolgimento. Il progetto di trattamento psicologico e rieducativo prevedeva una durata minima di 7 mesi (28 colloqui individuali a cadenza settimanale) e si è concluso su richiesta dell’utente in data 27 luglio 2020», si legge in quello che è definito come “attestato di frequenza”.
Nessuno però ha detto perché il percorso non sia stato completato, e nessuno l’ha chiesto.

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Oggi l’associazione Ares, intuendo l’onda che si è alzata e che forse non ha ancora raggiunto la sua intera estensione, prova a precisare: «Zlatan Vasiljevic non era in carico al nostro centro. Lo è stato ben due anni fa e per un tempo limitato. Al momento dell’abbandono del percorso, sconsigliato dal nostro operatore, è stato prodotto un resoconto che attesta unicamente la presenza agli incontri. Nessun “diplomino”». E ancora: «Ribadiamo che il signor Vasjlievic aveva, nostro malgrado, interrotto volontariamente, due anni fa, il programma di trattamento, che ci sentiamo di affermare è stato condotto in modo coscienzioso e professionale. Questa consapevolezza, aperta a ogni tipo di approfondimento da parte delle autorità competenti, ci porta anche a renderci disponibili a rispondere del nostro operato con trasparenza».
Alla fine il rischio è che non abbia sbagliato nessuno. Che tutti abbiano fatto per quanto era nelle loro competenze, il proprio “dovere”. Il punto è che nessuno pare essersi parlato. Che la tanto sbandierata “rete” lo sia stata davvero, ma nel senso letterale: piena di buchi. Ieri, al nostro giornale, il procuratore capo, Lino Giorgio Bruno, ha sì ribadito l’applicazione di tutti i protocolli e le procedure, ma che questa vicenda deve portare a una riflessione. Da parte di tutti. Perché quella famosa rete venga finalmente stesa per salvare altre Lidija e Gabriela e non doverle più piangere. 

Matteo Bernardini

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