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L'intervista della domenica

Marco Pelle: «Ringrazio gli Stati Uniti dove tutto è possibile, ma le mie radici sono qui»

Il coreografo vicentino del New York Theatre Ballet racconta gli inizi durissimi e l'ostilità del padre. L'amicizia con Bolle e Ferri. Un'idea contro la precarietà.
Il coreografo vicentino Marco Pelle
Il coreografo vicentino Marco Pelle
Il coreografo vicentino Marco Pelle
Il coreografo vicentino Marco Pelle

AbunDance è il titolo di dieci conferenze che hanno visto in cattedra all'Istituto italiano di cultura di New York il vicentino Marco Pelle, 47 anni: la danza concepita come uno dei grandi movimenti della storia. Quello studio si è intrecciato alla passione di Marco per l'arte ed ha generato un ciclo di video sul rapporto con la grande scultura. Di Antonio Canova il coreografo expat ha parlato in dicembre in una lezione pubblica a Vicenza. 
Marco Pelle nel 2016 ha vinto il premio Primi Dieci Usa assegnato agli italiani più influenti in America: è solo uno dei tanti riconoscimenti di una carriera partita in modo tumultuoso e ribelle, approdata ora alla coreografia internazionale. Liceo classico in città: la danza è la sua passione di bambino mal digerita dal padre Alfredo – dirigente di banca, enogastronomo – che lo indirizza ad altri sport. 
Marco non demorde, si iscrive all’università Padova e alla scuola di Maria Berica Dalla Vecchia, non si vergogna di ballare con i ragazzini. Transita all'Academie de danse classique Princess Grace di Monaco, comprende che non diventerà una stella della classica ma che altre strade possono aprirsi e a 22 anni prenota il volo per New York. Vita randagia i primi tempi, “ero wild”, tenta varie scuole e sotto la guida di Merce Cunningham che gli assegna borse di studio, diventa danzatore e coreografo. Dal 2012 è residente al New York Theatre Ballet, dal 2013 collabora con l’étoile Alessandra Ferri, firma produzioni a Spoleto, Pechino, in vari teatri americani, diventa regista d'opera lirica, lavora con serie tv, dirige nel 2019 il Gala internazionale di danza con la Ferri a Detroit. È academic fellow alla Bocconi di Milano dove tiene un corso sulle direzioni artistiche nello spettacolo. E da un mese è stato nominato Accademico Olimpico: «Insperato, ne sono felice».

Pelle, più americano che italiano dopo 25 anni di vita a New York?
Eh no. Io tutti i giorni apro la mia finestra sull’Italia: a colazione faccio una videochiamata con mia madre, per lei è ora di pranzo e chiacchieriamo grazie a whatsapp. Una cosa meravigliosa se penso che nel 1997 giravo con un sacchetto di gettoni telefonici e stavo nelle cabine ore per farla stare tranquilla. Io vivo là ma sono sempre qui con la testa, c’è una parte di me divenuta statunitense e una che abita sempre a Vicenza. Il mio processo di emigrazione non si è mai compiuto del tutto, perché le radici le sento fortissime e a volte hanno il sopravvento.

Però agli studenti della Bocconi lei insegna a prendere le distanze, anche da se stessi.
Vero, il corso che tengo si fonda sull’approccio critico al management e alla direzione artistica: chi un giorno sarà direttore di spettacoli deve liberarsi del gusto personale e portare teatro e pubblico verso il futuro. La grande sfida oggi è conoscere ciò che ha profondità e disancorare l’orientamento personale da una stagione o da una compagnia. È un percorso che ho fatto quando mi sono liberato un po’ alla volta di chi aveva avuto influenza su di me, per trovare la mia strada.

Come nasce questo suo interesse verso la scultura e in particolare per Canova?
Sono uno studioso, mi piace leggere e approfondire. Nel progetto per l’Istituto italiano di cultura di Washington ho esaminato dieci esempi della grande statuaria italiana, 5 sono di Canova, poi Bernini, Giambologna, Michelangelo… che ho trasformato in coreografie. Nei video di Statuesque danzando si ricrea per qualche secondo il gruppo marmoreo: sono venuti due primi ballerini della Scala, Martina Arduino e Marco Bruni, tre giorni per girare i video, pubblicati poi ogni due-tre settimane. Quanto a Canova non ho la prova che si sia rifatto ad uno spettacolo di danza ma è certo che in almeno tre delle sue famose statue c’è un passo di danza completo: la danzatrice con le mani sui fianchi e quella con i cembali, sono un primo passo, un coupé e un piccolo arabesque. Agli occhi di un coreografo è molto chiaro. Nel Settecento la grazia era perfezione e attraversava tutte le arti, Canova aveva uno sguardo speciale sulle proporzioni che divenivano l’essenza della sua opera. Credo che lo scultore vedesse nella danza la rappresentazione in carne ed ossa di una perfezione formale che aveva in testa, che ricreava. Sappiamo di un solo passo di danza, l’attitude, ispirato da una statua: il Mercurio volante del Giambologna, creato da Carlo Blasis. Ma penso che una grande influenza l’abbiano avuta gli affreschi di Ercolano; e che le braccia di Apollo e Dafne in Bernini siano un preludio al passo a due in Giselle.

La danza per lei è arte ma anche….
Studio e passione totalizzante. A lungo l’aspetto emotivo e viscerale ha prevalso, oggi invece il processo razionale è altrettanto importante. Sempre di più predispongo le coreografie attingendo al sapere storico ed elaborandolo: analizzo anche lo spartito musicale, ti dà in mano le redini della musica, e tu non balli la musica, la diventi. Il pubblico lo vede. Lo facciamo in pochi, io e Mark Morris ad esempio, ma anche Balanchine conosceva gli spartiti per entrare meglio nella composizione. La conoscenza è questo: stare dentro, capire, farlo con coscienza. Tutto questo è frutto di un percorso che mi ha cambiato profondamente da quando sono arrivato qui e mi sono buttato con incoscienza nella coreografia, mentendo la prima volta a chi mi dava un incarico, fingendomi esperto anche se non lo ero ma con l'urgenza di fare quella strada lì. Fu Mario Corradi ad aprirmi questa possibilità e sono diventato più autentico. Alessandra Ferri me lo ha chiarito in maniera definitiva: il movimento creativo va dal cuore all’esterno, non viceversa. Un ballerino agé, nel primo anno a NY, mi disse: in questa città puoi svegliarti ogni giorno e decidere chi sei. Una grande libertà che può anche dare alla testa. 

Alessandra Ferri, con Roberto Bolle, fa parte dei suoi amici più cari ma anche delle sue collaborazioni.
Con Roberto siamo amici e ragazzi insieme, nel senso che siamo entrambi del 1975. C’è uno scambio continuo di idee e da lui ho imparato il lavoro durissimo e insieme la misura giusta. Alessandra invece mi consiglia e mi trapassa, ha un’area quasi sacrale quando danza e quando parla. Quando mi consiglia artisticamente, io eseguo. Non discuto.

Come vi siete conosciuti?
Con Alessandra nel 2013, per lavoro, me la fece conoscere Roberto. Ero stanco di occuparmi di compagnie, senza primi ballerini. Volevo provare con les étoiles per capire la loro luce interiore. Collaboravo con Beatrice Carbone, solista alla Scala, e continuava a dirmi che voleva fare una cena con Roberto Bolle. Io nicchiavo e rinviavo, sono socievole ma non bravo nelle situazioni in cui non conosci nessuno e ti trovi davanti una star. Successe l’anno dopo che il direttore della Balanchine Foundation diede una festa a NY e quella sera c’era qualcosa di elettrico nell’aria: arrivò Bolle, mi presentai ed esplose con un “ma sei l’amico di Bea, finalmente!”. Ne è nata una amicizia fraterna, e collaborazioni con lui e Alessandra. Di Roberto ammiro quel fuoco immenso che lo anima e che sa dosare e controllare, un segno di qualità e di misura. E l’intelligenza che c’è nei suoi comportamenti.

È Bolle il più grande di tutti?
Bolle è un dio che balla, di una bellezza apollinea rara. Ma questo concetto del numero uno non mi appartiene, è frutto dello stile Usa che ha inventato le hit parade. Ci sono molti ballerini straordinari in ambiti diversi, il pubblico sa giudicare.

Classica, moderna, contemporanea. Qual è la sua danza?
Le mie coreografie sono considerate neoclassiche. Anche se c’è una contemporaneità evidente nell’uso delle braccia. Vedo tanti spettacoli per lavoro e quando sento il pubblico che esce dai teatri e dice “io la danza non la capisco” penso che noi coreografi abbiamo fallito. Se ti parlo in modo confuso, non puoi capire. La danza è un linguaggio che deve rappresentare un percorso interiore. Nella classica non amo moltissimo il periodo del ballet blanc, tranne sotto il profilo tecnico. Nella contemporanea il 50% delle volte vedo tanti movimenti non legati alla musica ma a quello che il coreografo ama fare: è un fallimento. 
Bisogna che le direzioni artistiche distinguano tra chi fa movimento ginnico e chi fa danza. Pina Bausch non era didascalica, ma con movimenti astratti raccontava delle storie in cui capiamo tutto. Mi spiace quando vedo spettacoli che vanno in altre direzioni, resisto fino alla fine, poi a casa mi ripulisco lo sguardo con un Giulietta e Romeo di MacMillan danzato da Alessandra. Oppure uno spettacolo di Wayne McGregor o Mauro Bigonzetti, straordinario. Dove percepisco verità, mi immedesimo. Dove vedo apparenze, mi annoio.

Cosa pensa del pubblico della danza in Italia? E delle rassegne diffuse in tante città?
Non ho capito ancora se sia merito dei teatri che le propongono o del pubblico che è cresciuto negli anni, forse anche grazie al risalto che la tv ha dato alla danza, e mi riferisco sia a Bolle che a trasmissioni tipo “Amici”. Di certo oggi c’è un grande slancio verso la danza, siamo un Paese benedetto. Anche Vicenza ha una bellissima stagione al Comunale.

Per lei è indifferente lavorare in America o in Italia?
Vado dove mi portano le occasioni. L’America mi ha consentito di collaborare con le Nazioni Unite, in un percorso di video e lezioni sul ruolo della danza. Ma non mi richiede nessuno sforzo rientrare in Europa perché qui sono a casa. Devo dire però che solo negli Stati Uniti può accadere che il mio teatro mi chieda di mettere in scena la storia di mio padre: sapevano che mi era ostile, che poi è diventato il primo fan, e quando mi hanno premiato c’era una luce nei suoi occhi che non ho visto mai. L’anno prossimo con mio fratello Federico che è compositore, lavoreremo ad uno spettacolo che in realtà avrei voluto fare da sempre. So esattamente come lo vedrei, Alfredo, oggi che non c’è più, sulla scena.

Come ha vissuto, visto il suo attaccamento all’Italia, durante la pandemia?
Con un dolore mai provato prima. Ero lontano, non potevo fare niente. Davanti alla tv ho pianto nei giorni delle ambulanze e delle sfilate di bare, del Papa solo in piazza S. Pietro. Non ho uno sguardo obiettivo, sono innamorato del mio Paese anche se l’ho lasciato per avere nuove possibilità. Sono grato agli Stati Uniti perché sono un ospite privilegiato, ma la gioia di vivere, l’intelligenza creativa, il paesaggio per me sono italiani. Non ho voluto diventare cittadino americano, ho fatto il visto per 18 anni, poi mio padre mi ha obbligato alla Carta verde. Forse è una cosa psicologica... non so. Certo qui a NY si sentono i riflessi della vita politica, della vita della metropoli, ma continuo a restare ospite. La mia unica vacanza ogni anno è Vicenza da mia madre e poi il nostro giardino estivo a Marina di Massa. La magnolia diventa il centro del mondo.

Parliamo della precarietà che in Italia accompagna la vita di chi lavora nel mondo dello spettacolo. Lei ha un suggerimento, una soluzione?
Un sistema misto pubblico-privato, solo così può funzionare. In America dove il mondo dello spettacolo è finanziato quasi solo dagli sponsor, durante la pandemia è crollato e non c’è stato alcun tipo di aiuto per nessuno. 
Teatri chiusi, produzioni ferme, ballerini senza soldi per due anni. In compenso chi sponsorizza, può detrarre il 100 per cento della donazione dalle tasse. Quindi ecco perché si riescono a mettere in piedi tante produzioni. In Italia invece il mecenatismo è presente un po’ solo nelle mostre e nei musei, non nello spettacolo. Quindi l’esistenza di uno Stato che comunque assegna contributi, anche se non sufficienti, è il motore delle produzioni. Sarebbe interessante correggere il metodo allargando le possibilità di contribuzione e detrazione per i privati. Andare a chiedere finanziamenti come abitualmente si fa negli Usa, sarebbe facile e potrebbe abbattere tante fasce di precarietà.

Nicoletta Martelletto

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