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Il reportage

In viaggio con i profughi verso il Vicentino. Bloccati dalla polizia ungherese, 12 ore tra controlli e test Covid

Le verifiche da parte della polizia alla stazione ungherese di Cinagad, a 100 chilometri dalla frontiera (FOTO ZILLIKEN)
Le verifiche da parte della polizia alla stazione ungherese di Cinagad, a 100 chilometri dalla frontiera (FOTO ZILLIKEN)
Le verifiche da parte della polizia alla stazione ungherese di Cinagad, a 100 chilometri dalla frontiera (FOTO ZILLIKEN)
Le verifiche da parte della polizia alla stazione ungherese di Cinagad, a 100 chilometri dalla frontiera (FOTO ZILLIKEN)

Ungheria, abbiamo un problema con l’accoglienza. Dodici ore nelle maglie e, per un periodo, in ostaggio della polizia ungherese. La compagnia è consolidata. Il regno di Serheij “Sergio” Morhun, il Chrysler Voyager che ospita anche noi, è territorio di “babushka” Tanya con le nipoti Lera, entrambi i genitori militari, Cristina e Alexandra, che hanno la mamma bloccata a Donetsk. Il van condotto a turno da Claudio Bernar e Gian Illesi è più affollato. Ci sono le figlie di Zina, moglie di Claudio, sorella di Tanya e della consorte di Serheij Eugenia, Irina ed Elena con le rispettive nipoti Karina, Solomia e Anastasia e Vika. Van da otto posti, tra l’altro, quasi impossibile da reperire a causa del rifiuto di almeno tre compagnie alle richieste di un esperto trasportatore come Claudio. Graditi ospiti del van anche un pacifico gatto nero e un cagnolino bianco, tra i tantissimi animali che hanno raggiunto la frontiera con i loro proprietari. 

I conducenti: da sinistra Serhij Sergio Mohrun, Claudio Bernar e Gian Illesi (Foto Zilliken)
I conducenti: da sinistra Serhij Sergio Mohrun, Claudio Bernar e Gian Illesi (Foto Zilliken)

 

All’arrivo al varco di Csengersima-Petea alle 10 del mattino, Sergio è pessimista ma pianifica un lungo turno di riposo appaltandoci il gravoso compito di spostare l’auto di metro in metro. L’onere che, per altro, certifica la fiducia di Sergio in altri autisti del suo mezzo termina alle 16.30. Il trono torna al suo padrone che vuole presentare il “pacco” di documenti conservato in busta anti-goccia. Dopo appena 6 ore mezzo di attesa, si scalpita ma i documenti si fermano nel “gabbiotto” di polizia. Dopo una ventina di minuti davanti alla sbarra chiusa, il vigilante si alza e porta tutto il pacco di lasciapassare nell’ufficio doganale. Nessuna spiegazione. I minuti sono interminabili. D’improvviso la sbarra si alza. Un energumeno della rendorsneg, la polizia ungherese, fa un cenno indicando uno spazio a bordo strada appena dopo il varco: «Avanzate e mettetevi lì». Dopo una decina di minuti d’attesa, l’altro van passa senza problemi. Sergio è teso, perché solo il nostro passaporto italiano e il suo ucraino corredato di ogni permesso e lasciapassare accumulato in anni, sono completi. Tanya viaggia con un passaporto ucraino interno; le due ragazze e la bimba, invece, stanno espatriando senza il consenso dei genitori assenti più che giustificati. La sorte accomuna un’altra decina di auto.

Il passaggio tra Romania e Ungheria viene attraversato da migliaia di auto in questi giorni
Il passaggio tra Romania e Ungheria viene attraversato da migliaia di auto in questi giorni

 

Sergio indaga con la sua arte oratoria in russo e ucraino ma niente. Passa un operatore a prendere dei numeri di targa. Restiamo di stucco quando, alle 18 circa dopo due ore di attesa al freddo attutito solo dai climatizzatori delle auto, due camionette della polizia si accostano alla fila. «Seguite quel mezzo» è l’unica indicazione. Alle timide ma passionali richieste di Sergio si oppone un gesto secco. Nessuno può rifiutarsi anche perché la polizia ha di fatto sequestrato tutti i documenti. «Stai tranquillo Serghij, ci portano in caserma per fare un po’ di chiarezza come l’hanno voluta fare in Moldavia e in Romania». Questo mantra convinto inizia a affievolirsi dopo oltre un’ora di rincorsa alla camionetta. Anche perché la direzione è proprio quella della frontiera centrale. Il timore è che i documenti siano troppo fuori regola e che vogliano rimpatriare le tre ragazze senza genitori. Sergio è disperato perché se lui entrasse in Ucraina non lo farebbero più uscire: gli mancano pochi mesi per compiere i 60 anni. Suo figlio Sasha sta a 600 chilometri da quella frontiera e di notte non può viaggiare. 

Cerchiamo di capire se può essere eseguita una consegna in un’area neutra. Intanto si sprecano triangolazioni telefoniche via whatsapp. A una rotonda, la tensione lascia spazio allo sbigottimento. La stazione di polizia di Cigand è a quasi 100 chilometri dalla frontiera di partenza. I poliziotti accerchiano il gruppo e indicano di mettersi in fila. Davanti all’ingresso c’è un piccolo drappello di volontari con viveri riservati ai profughi e scritte di solidarietà. Viene messo nelle mani di ognuno un modulo in cirillico. Si tratta, in definitiva, di un’area per i covid test. Nessuno però ha ancora i suoi documenti ed è peculiare che, dopo il sondaggio di Serheij, arrivino lì solo persone con situazioni di documenti particolari. Al nostro passaporto italiano gli agenti reagiscono con un “Cosa ci fai qui? Come hai fatto a prenderlo?”. Il covid test dura due ore. Mentre il van di Claudio e Gian riparte, il Chrysler si muove solo alle 22.30. Il viaggio si conclude alle 12 di ieri. L’obiettivo è raggiunto ma Sergio, dopo 7 mila chilometri in una settimana, non ha finito: «Non tutta la mia famiglia è al sicuro, se mi chiamano riparto». Claudio e Zina ospitano tutte e dieci le ragazze arrivate ieri nella loro casa di Cereda. Sperano di trovare una soluzione alternativa. 

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Karl Zilliken

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