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L'emergenza

Il dolore dei rifugiati afghani a Vicenza: «In poche ore crollati i sogni di una vita»

L’incontro con la famiglia afghana che è stata ospitata in un appartamento a Thiene (Foto Ciscato)
L’incontro con la famiglia afghana che è stata ospitata in un appartamento a Thiene (Foto Ciscato)
L’incontro con la famiglia afghana che è stata ospitata in un appartamento a Thiene (Foto Ciscato)
L’incontro con la famiglia afghana che è stata ospitata in un appartamento a Thiene (Foto Ciscato)

Glielo hanno spiegato subito: in Italia all’aperto si può stare senza mascherina, al chiuso invece bisogna indossarla. Messaggio registrato e dispositivo a portata di mano. La famiglia di profughi afghani, sistematasi martedì notte in un appartamento nella zona ovest di Vicenza, ha iniziato a familiarizzare con la città che per un futuro ancora indefinito sarà la sua nuova casa.

Avvicinati, i rifugiati sono disponibili a raccontare la loro storia, anzi «è importante parlare di quello che sta accadendo in Afghanistan, perché l’informazione là non è più libera», sottolinea Syed, 40 anni, in un inglese fluente. In particolare vogliono raccontare questi ultimi venti giorni, che sembrano in realtà una vita. Con il loro mondo stravolto all’improvviso. 

In tutto sono in undici, tra cui due bambine. Sono fratelli, cugini, mogli, nonna, tutti parenti. Sono riusciti a mettersi in salvo da Kabul alcuni giorni dopo la presa del potere da parte dei talebani «salendo su un aereo diretto a Roma. Era pieno di persone. Le donne sedute sui sedili, gli uomini per terra. Ma nessuno si è lamentato, l’importante per tutti era salvarsi. Più persone sono riuscite a salire, meglio è stato».

Il dramma delle ultime settimane è vivo, ma trovano la forza di sorridere e ringraziano «il governo italiano per averci aiutato, ha fatto molto. E anche chi ci sta aiutando qui». Il fardello di quanto vissuto però è pesante e non si può certo cancellare con un colpo di spugna. Nemmeno si deve, secondo Syed: «È importante parlare di quello che sta accadendo». «Quella mattina - ricorda ancora - non sembrava ci fosse niente di strano a Kabul, poi sono arrivati i talebani in città, le persone si sono spaventate, per le strade è iniziato il caos. Abbiamo subito capito che dovevamo andarcene al più presto perché non era più sicuro rimanere là. In meno di un giorno sono crollati i sogni e il lavoro di una vita. Gli ultimi vent’anni sono stati spazzati via». 

L’occasione per mettersi in salvo è arrivata con i ponti aerei organizzati dalle forze internazionali. Syed e altri membri della sua famiglia lavoravano nel campo informatico, anche a servizio di ambasciata e organizzazioni umanitarie. La moglie, invece, nella comunicazione. Chiedono di non fornire troppi dettagli, non vogliono rischiare di essere in qualche modo riconoscibili. In Afghanistan hanno ancora dei familiari e non vogliono metterli in pericolo.
«I primi giorni i talebani giravano per le strade - ricorda Syed - poi hanno iniziato ad andare casa per casa a cercare i collaboratori delle organizzazioni occidentali. Sono stati giorni di grande paura. Abbiamo preso qualche vestito, i documenti più importanti, i titoli di studio, e ci siamo diretti verso l’aeroporto di Kabul, sperando di riuscire a scappare». I documenti che non hanno potuto portare con loro, hanno preferito bruciarli. Nelle vicinanze dello scalo invece, prima di raggiungere la zona sicura, hanno nascosto i telefonini. «Li controllavano, li prendevano. Cercavano foto, contatti». Il primo tentativo è andato male. «Siamo stati rispediti indietro». Ma non hanno mollato. «Il giorno dopo siamo tornati, c’era gente ovunque che cercava di raggiungere l’aeroporto. Grazie alle forze italiane siamo riusciti ad entrare. Abbiamo dormito là una notte, poi ci siamo imbarcati».

 

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Roma, poi Sanremo. La quarantena, il tampone negativo. Infine Vicenza. Il trasferimento ieri notte. L’autobus guidato dall’esercito è arrivato in questura a Marghera verso le 23, poi via verso i comuni di destinazione. Nel Vicentino sono arrivate 23 persone, le undici di Vicenza e sei rispettivamente a Thiene e Schio. «Come ci sentiamo qui? Liberi e sicuri». Restano però i ricordi degli spari, dei militari, dell’angoscia. «Alle bambine abbiamo detto di essere forti, sono brave». Infine un messaggio al loro Paese: «Vorrei dire a chi è là di avere speranza in un futuro più luminoso. Il popolo afghano non può accettare questa situazione». Intanto si ricomincia da qui: lavoro, studio, una lingua da imparare, un Paese da conoscere. 

 

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Alessia Zorzan

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