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Il caso

Giovane ucciso all’ambasciata: il governo spinge le indagini

Il provvedimento era atteso. Il ministro della giustizia Marta Cartabia ha firmato una richiesta di procedimento penale per far luce sulla morte, il primo gennaio scorso, di Luca Ventre, imprenditore di 35 anni di origini lucane ma residente a Torri di Quartesolo, deceduto in circostanze da chiarire all’interno dell’ambasciata italiana in Uruguay. L’intervento della guardasigilli era atteso dalla famiglia, che è assistita dall’avv. Lino Roetta, per sbloccare le indagini avviate dalla procura di Roma sulla tragedia. Di fatto, il governo spinge le indagini affinché venga fatta chiarezza, togliendo i vincoli che la magistratura italiana aveva su una disgrazia avvenuta all’estero. Analogo provvedimento è stato firmato da Cartabia per l’omicidio in Congo dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacobacci; il governo ha rimosso ogni impedimento affinché la magistratura italiana ricostruisca quanto è avvenuto e possa mandare a processo i presunti responsabili.
Il dramma è noto. Lo hanno di recente raccontato in televisione il fratello di Luca, Fabrizio, la madre della vittima, Palma, e il padre Carmine. Quella mattina l’imprenditore aveva scavalcato il cancello della casa dell’ambasciatore a Montevideo, situata accanto all’ambasciata, per parlare con un funzionario della struttura, prima di entrare nel cortile dell’ambasciata e di essere immobilizzato a terra da Ruben dos Santos, poliziotto uruguaiano. Poliziotto (ora indagato dalla procura della Capitale per omicidio preterintenzionale), che ha poi stretto il braccio attorno al collo di Ventre per venti minuti, prima del trasporto in ospedale dove Luca era stato dichiarato morto per «arresto cardiaco aggravato dall’uso di cocaina». Da quel giorno era iniziata la battaglia legale della famiglia Ventre che, grazie alle numerose immagini registrate dalle telecamere dell’ambasciata, non ha mai creduto alla versione delle autorità sudamericane. Versione smentita dall’autopsia ordinata dalla procura di Roma con il pubblico ministero Colaiocco in maggio, che indicava nello strangolamento, «asfissia meccanica, violenta ed esterna», la causa del decesso. Sul perché Luca abbia scavalcato il cancello della struttura, il padre Carmine aveva dichiarato che il figlio gli aveva detto che qualcuno lo stava per «sequestrare, torturare e ammazzare. Luca voleva tornare in Italia». Sembra dunque che l’imprenditore, sentendosi in pericolo, abbia cercato nell’ambasciata un luogo sicuro, arrivando a scavalcarne il cancello pur di parlare con un funzionario, e lì invece abbia trovato la morte.
L’indagine rischiava di arrivare però in un binario morto senza il via libera del ministro, che ora ha dato il suo assenso per proseguire le indagini e per fare luce sui tanti misteri della tragedia. Per questo ora potranno essere ascoltati i testimoni, e potrà essere incriminato l’agente, che avrà modo di difendersi e di spiegare le ragioni del suo comportamento. 
Sul caso era intervenuto nelle scorse settimane anche il ministro degli esteri Luigi Di Maio, che aveva assicurato l’intervento del corpo diplomatico della Farnesina per dare il massimo supporto all’inchiesta.
La famiglia, soddisfatta dello “sblocco”, attende ora gli sviluppi, per arrivare a «verità e giustizia», come reclamato a gran voce dal gennaio scorso.

Diego Neri

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