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La storia

Forte come un Ironman, Stefano sfida il Parkinson: «Tiro fuori le unghie»

La gara: nel 2019 Stefano Ruaro ha partecipato all’Half-IronMan di Cervia
La gara: nel 2019 Stefano Ruaro ha partecipato all’Half-IronMan di Cervia
La gara: nel 2019 Stefano Ruaro ha partecipato all’Half-IronMan di Cervia
La gara: nel 2019 Stefano Ruaro ha partecipato all’Half-IronMan di Cervia

Una volontà di ferro, che va oltre la malattia. Ma anche un esempio che gli ha permesso di superare il momento più buio e che lui ora vuole dare a chi si trova ad affrontare una prova simile alla sua. Stefano Ruaro, 58enne imprenditore vicentino, lo sport l’ha praticato praticamente tutta la vita. 

Da qualche anno, però, la sua passione si è trasformata in qualcosa di più: un modo per affrontare la malattia e far capire a chi si trova nella sua stessa situazione che sì, si può fare. Non solo una corsetta, un giro in bici o una nuotata, ma addirittura un ironman. Che, come dice il nome, è una prova per cuori - e fisici - forti e allenati: 3,8 chilometri di nuoto seguiti da 180 di bicicletta e 42 di corsa. E lui, a settembre, sarà il primo malato di Parkinson ad affrontarla. «Il mio obiettivo - racconta - non è tanto essere il primo a farlo, ma non essere l’ultimo. Il risultato non conta, sarebbe già importante arrivare restando nelle 17 ore, il tempo limite, perché è una gara durissima, per la quale ce la sto mettendo tutta, con un team che mi sostiene». 

Non è ovviamente un caso che questo esempio lo voglia dare su un piano sportivo, visto che è stato uno degli elementi costanti della sua esistenza. «Fino a 35 anni - racconta - ho giocato a calcio a Schio e Marano, poi mi sono ritirato per infortunio e mi sono dato alla mountain bike. Nel 2016 ho scoperto il triathlon e nel 2019 sono arrivato a completare un mezzo ironman». 
Poi la pandemia ha bloccato tutto e durante il periodo di stop è arrivata anche la diagnosi di Parkinson, che ha scombinato le carte in tavola. «Già prima mi rendevo conto che le mie prestazioni non erano più le stesse e avevo disturbi strani, per i quali mi ero sottoposto a una serie di indagini. A un certo punto ho capito che probabilmente stavo sbagliando medico e che il problema, probabilmente, non era nel fisico. Sono andato dal neurologo e lui ha intuito di cosa si trattava». 

Un momento molto difficile, non solo sul piano clinico, ma soprattutto su quello psicologico e relazionale. «È stato un colpo da ko. Mi sono visto finito ed è stata dura da digerire, anche se ho una famiglia molto unita, che mi è stata vicina. Non riuscivo a rassegnarmi all’idea di dover vedere un declino più rapido del normale. Ne ho parlato con pochissime persone, ma le pacche sulle spalle le vedevo come un gesto di compassione e menefreghismo, anche se in realtà volevano darmi una mano». 

Ma non tutte le pacche sulla spalla sono uguali, e tra tante ne è arrivata una diversa, che ha portato a una svolta. «Chi me l’ha data era malato e da lì ho capito che se ce l’aveva fatta lui dovevo farcela anch’io. Mi ha fatto comprendere che ero comunque fortunato, perché ero vivo, e che dovevo tirarmi su le maniche e ricominciare a vivere. Da lì è partita la voglia di fare tutto quello che sto portando avanti oggi, che non è tanto il triathlon o l’ironman, ma far crescere il progetto Indomitry, gli “indomiti del triathlon”, che vuole scuotere le persone e far capire che chi ha un problema non si deve arrendere, ma tirare fuori le unghie. A volte non basta un consiglio o una buona parola da parte di chi è vicino, ma serve un esempio concreto». 

Che è quello, appunto, che vuole fare partecipando all’ironman di Cervia il prossimo 17 settembre, nonostante le problematiche fisiche che la malattia lo costringe ad affrontare. «A partire dalla rigidità muscolare, che peggiora con l’avanzare della malattia, anche se sono ancora all’inizio. E poi vertigini e problemi di equilibrio, che quando corro mi costringono a stare distante dagli avversari per evitare la nausea. È una situazione strana, ma per fortuna i farmaci limitano i sintomi». 

A preoccuparlo di più, delle tre discipline, è il nuoto «perché l’acqua non è il mio elemento», ma anche la corsa «perché non so come il corpo reagirà dopo 9 o 10 ore di gara e con il mio passato calcistico le articolazioni non sono proprio un “usato sicuro”. Spero solo che il mare sia calmo e di arrivare in fondo. Ad aiutarmi, comunque, ho un team formato da due allenatori, due fisioterapisti, un nutrizionista e un mental coach, uno staff che mettiamo a disposizione delle persone che partecipano a Indomitry». 
Il lavoro, infatti, è già iniziato, anche grazie a delle donazioni arrivate spontaneamente. «Le abbiamo ricevute senza chiedere e stiamo comprando e modificando le bici - conclude Ruaro - e la cosa bella è che chi riesce ancora a fare sport, pur con dei limiti, si allena insieme ai normodotati, che li accolgono come compagni di viaggio e li sostengono. Questo spirito di squadra è importante e aiuta molto le persone a sentirsi bene».

 

Maria Elena Bonacini

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