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Montecchio Maggiore

Addio ad Agosti
una vita a difendere
i diritti dei disabili

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Una recente foto di Enrico Agosti morto a 66 anni. A.S.
Una recente foto di Enrico Agosti morto a 66 anni. A.S.
Una recente foto di Enrico Agosti morto a 66 anni. A.S.
Una recente foto di Enrico Agosti morto a 66 anni. A.S.

Quando muore un grande, ci si deve fermare almeno per un attimo. Perché Enrico Agosti è stato uno di questi. Un grande e per certi versi anche un simbolo, il simbolo della lotta per la parità dei diritti delle persone con disabilità. Aveva solo 16 anni quando un pirata della strada lo travolse durante un allenamento senza nemmeno fermarsi a prestare soccorso spegnendo in un attimo i suoi sogni di ragazzo e di corridore, anche piuttosto promettente. Era l'estate del 1969. Ma da allora quel ragazzino di Montecchio Maggiore, rimasto paraplegico e costretto su una carrozzina, divenne ben presto l'arma e la voce di tante persone che nella sua condizione non avevano né la forza e né il coraggio di difendere i propri diritti. Erano tempi in cui la disabilità era un handicap e non un valore o meglio ancora una risorsa. Tanti ragazzi che nella sua condizione non avevano il coraggio di uscire di casa. Lui invece aveva coraggio e orgoglio da vendere e di persone come lui ne ha tirate fuori tante dalle proprie case. Da quel maledetto giorno, nel 1969, era cominciata la sua battaglia. L'inizio di una grande storia finita troppo presto, a 66 anni, per un male divenuto incurabile. A Spoleto, nell'Umbria dell'amata moglie Cinzia che tanto gli stava nel cuore e dove avrebbe voluto potersi godere gli anni della sua pensione.

 

Da quel giorno Enrico ha lottato come un leone per gridare a gran voce e reclamare, per le strade, nelle scuole, nei palazzi del potere i diritti delle persone diversamente abili. Tanto da farsi anche mal volere per questa sua intransigenza in più di qualche occasione e ritenere talvolta personaggio scomodo. Mai invitarlo a qualche cerimonia o conferenza magari sulle barriere architettoniche se per arrivare al palco c'erano i gradini. Un autogol che difficilmente lui avrebbe perdonato. La sua più grande creatura, quella a cui per tutta la sua vita è stato maggiormente legato dopo la famiglia, da mamma Alba (sempre al suo fianco nelle battaglie), papà Lisetto, al fratello Fabio, alla moglie Cinzia e al figlio Jul Francesco, è stata l'H81. Ottantuno, l'anno mondiale dell'handicap. L'Associazione da lui fondata assieme ad altri personaggi simbolo come don Giovanni Cecchetto. E della quale rimase presidente fino all'aprile 2004, prima di passare il testimone a Lucio Vicentini.

 

Di incarichi e di impegni a vari livelli ne ha poi avuti molti. Negli ultimi anni era il delegato Cip della provincia di Vicenza. Ma l'impegno cui non rinunciava mai era nelle scuole dove andava a parlare ai ragazzi di barriere architettoniche. Quelle che nei primi anni (e non solo i primi) della sua disabilità erano disseminate ovunque, per le strade, sui marciapiedi, nei palazzi dell'Italia e che ora sempre di più sono state via via eliminate anche grazie al suo grande impegno. Lui con il suo Sulky, quando (gli anni 70 e 80) non gli avevano ancora permesso di prendere la patente, arrivava ovunque. L'impegno nel sociale non gli impediva di coltivare con grande passione anche quello nello sport. Il tennistavolo, dopo il ciclismo, è stato quello più amato. Una presenza fissa ai tornei e ai campionati italiani con il ricordo sempre vivo ed emozionante della medaglia tricolore vinta un anno nella sua categoria, la classe 3. Oggi l'ultimo saluto nella chiesa del cimitero di Nocera Umbra dove sarà tumulata la salma.

Antonio Simeone

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