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La storia

Il fante trovato da sei escursionisti di Lumignano ha un nome dopo 38 anni

È stato per trent’anni un giallo storico della Prima Guerra mondiale, quello del corpo del soldato senza identità rinvenuto casualmente sotto una coltre di ghiaccio da un gruppo di escursionisti di Lumignano, tra le montagne del Cadore, che giace nel cimitero di Santo Stefano di Cadore con la scritta: “Alpino ignoto del Popera”. Corpo e memoria sembravano essere destinati a restare sepolti lì per sempre, fino a cinque anni fa, quando alcuni appassionati ricercatori storici, si misero a indagare come detective per cercare di far luce su questa storia. Impresa quasi impossibile, visti gli scarsi indizi e tracce che restavano. 
Invece l’inaspettata risposta delle loro ricerche su quel corpo ignoto è giunta in coincidenza con il centenario del “Milite ignoto” più famoso, quello tumulato a Roma. I primi a felicitarsi per l’esito positivo dei ricercatori, sono i cinque escursionisti di Lumignano con nel cuore un pizzico di meritato orgoglio: Claudio Balbi, Carlo e Luigino Cocco, Stefano Maruzzo, Severino Prosdocimi, da cui tutto è iniziato. «Oggi che sappiamo chi finalmente è stato il soldato che abbiamo trovato –ricordano i vicentini-, ci tornano in mente i ricordi di quei momenti che non abbiamo mai cancellato»
«Era il tardo pomeriggio del 6 agosto 1983 - raccontano -, quando scendendo dal Vallon Popera vicino al Passo della Sentinella, vedemmo affiorare tra il ghiaccio i resti di un vecchio scarpone. Fu subito chiaro, osservando la presenza di ossa, che si trattava di un corpo umano». Avvertite le autorità, qualche giorno dopo alla presenza di Claudio Balbi, vennero recuperati i resti, compreso quello che sembrò un cappello d’alpino, che per questo porterà ad attribuire il corpo a un “alpino ignoto del Popera”, come sarebbe stato poi scritto sulla lapide cimiteriale. Il rinvenimento ebbe un’eco nazionale sette giorni dopo, quando il presidente della Repubblica Sandro Pertini in vacanza in queste valli, volle presenziare ai funerali con la presenza di più di diecimila persone. «Fu un funerale di popolo -ricorda Stefano Maruzzo, tra gli escursionisti vicentini presenti-, cui parteciparono anche alcuni di noi. Le lacrime non mancarono sebbene non sapessimo nulla di colui che stavamo seppellendo». 
Fino al 2016, quando la passione di sei ricercatori storici, Silvia Musi, Federica Delunardo, Antonio Sasso, Daniele Giardini, Guglielmo De Bon e Mauro Ambrosi, decisero di cimentarsi nel tentativo di dare un nome a quei poveri resti. «Questo ha significato un lavoro immane e volontario, durato oltre cinque anni, –spiega Musi-, con ricerche incrociate tra archivi e indizi vari». L’equipe giunse attraverso gli archivi militari a ipotizzare che si trattasse di uno dei due alpini dispersi in quell’area causa valanga, l’8 settembre del 1916, come registravano le cronache. «Avevamo pure i loro nomi e sentivamo di essere ormai giunti all’obiettivo. Ma tra di noi serpeggiavano dei dubbi che non volevamo trascurare. Galeotta fu la possibilità che ci venne offerta dal poter analizzare personalmente i reperti recuperati e consegnati dai carabinieri al rifugio Lunelli-Berti gestito dalla famiglia Martini, ancora oggi esposti e conservati dentro una teca». Rimescolate le carte, i ricercatori fecero allora l’inaspettata scoperta: «Osservando gli oggetti, in particolare l’usurato portafoglio contenente un calendarietto di una farmacia romana e il bavero dell’uniforme, emerse la “prova regina”. Sotto i frammenti delle mostrine era visibile un sottile strato di colore rosso, che era degli ufficiali medici. C’era poi la provenienza del calendario di Roma e una minuscola medaglietta con due iniziali “CC”. Indizi sufficienti per soverchiare le congetture fin lì fatte, non più sui soldati semplici, ma sugli ufficiali caduti a prescindere dal corpo di appartenenza. Emerse che in quell’area i morti italiani per valanga furono solamente due: l’aspirante Guido Peraldo-Pejo e il sottotenente medico Carlo Cosi, entrambi del 24° Reggimento fanteria, deceduti il 9 novembre 1916 per la stessa causa: una slavina. Quello che ci portò a identificare con quasi assoluta certezza Carlo Cosi, come il fante volontario morto tra gli alpini, fu il fatto che la salma del Peraldo-Pejo riposava già nel cimitero di Santo Stefano di Cadore, mentre il Cosi era dato per disperso» conclude Silvia Musi, coautrice con Guglielmo De Bon del volume “Sotto una coltre di ghiaccio” che narra l’avvincente storia. Nelle stesse pagine, viene sottolineato l’intervento e la sensibilità dei vicentini, ricordando che qualche mese dopo il ritrovamento del corpo, essi tornarono sul ghiacciaio per porre una targa ricordo. 
«Ci sembrò giusto compiere un gesto di pietà e memoria» ricorda ancora uno dei testimoni di allora, Lorenzo Farinello che nell’83 assieme a papà Giuliano ed altri escursionisti si adoperò per la posa della targa con su scritto: “Quassù le meraviglie del creato ricordano il calvario di giovani vite e la loro voglia di vivere. All’Ignoto Soldato della guerra ’15-’18 qui ritrovato da escursionisti di Lumignano il 6-8-1983. La Comunità di Lumignano”. 
Targa che potrebbe essere ora riscritta, visto che l’ignoto ora ha trovato un nome e una famiglia napoletana, cui è stata data la possibilità di porre un fiore sulla tomba di quel loro caro disperso in guerra, che volenterosi ricercatori l’hanno fatto diventare da “alpino ignoto” a fante-medico a noi noto.

Antonio Gregolin

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