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Torri di Quartesolo

Elvira, la mamma di Gelindo Bordin al traguardo del secolo: «La mia maratona lunga 100 anni»

La festeggiata mamma Elvira con il sindaco e Gelindo Bordin oro a Seul nel 1988 (nell'immagine a destra)
La festeggiata mamma Elvira con il sindaco e Gelindo Bordin oro a Seul nel 1988 (nell'immagine a destra)
La festeggiata mamma Elvira con il sindaco e Gelindo Bordin oro a Seul nel 1988 (nell'immagine a destra)
La festeggiata mamma Elvira con il sindaco e Gelindo Bordin oro a Seul nel 1988 (nell'immagine a destra)

«Quel giorno un povero era a arrivato lassù, in alto, dove di solito arrivano solo i ricchi. Quel giorno, al traguardo, ho pianto per il mio Gelindo». Quel “povero” si chiama Gelindo Bordin, quel giorno era il 2 ottobre 1988, quello dello straordinario oro olimpico del maratoneta vicentino a Seul, e le lacrime di gioia erano quelle di sua mamma, Elvira Canola, che lo incitava dal salotto di casa, trepidante davanti alla tv.

Si commuove ancora adesso, mamma Elvira, rivivendo quei momenti, una maratona scolpita nella storia dello sport. Ma oggi la maratoneta è lei, giunta al traguardo pieno e simbolico del secolo di vita. Lo ha tagliato il 13 agosto con una mente lucidissima e una prontezza disarmante. Diresti uno scherzo dell’anagrafe, a vederla così in forma, a sentirne la voce dolce e sicura, ma è tutto vero: «Sono tranquilla, serena, sono un po’ permalosa, ma sono una persona che non si arrabbia: se sono arrivata a 100 anni, nonostante le malattie, lo devo a questo». «Sì, oggi la maratoneta è lei e quello è sempre stato il suo spirito, una forza per lei e per tutti noi», riconosce il figlio Gelindo, che proprio oggi la raggiungerà a Marola per pranzare insieme a lei e ai suoi fratelli Augusto, Cleziano e Nerino.

 

LA CAMPAGNA E LA GUERRA - «Siamo una famiglia unita, sa? Anche se alcuni miei figli abitano lontano, siamo uniti». Lo dice con vecchio orgoglio contadino, Elvira Canola, seduta nella veranda della sua casa a Marola di Torri di Quartesolo. Cerca l’ombra, tra vasi di fiori e piante infiocchettate. «Guardi quanto affetto, me le hanno regalate per il compleanno. Ho sempre avuto la fortuna di trovare il rispetto delle persone, fin da ragazza». E allora il racconto risale i fili della storia, quella privata e quella collettiva. Elvira racconta, sciolta e serena come dice di sentirsi. «Sono nata ad Agugliaro, in una famiglia di contadini, allora eravamo un po’ tutti contadini». Tre sorelle e tre fratelli, una vita fatta di lavoro in casa e lavoro nei campi, «ma io facevo più lavori di casa perché ero brava a cucire», una vita umile e dignitosa interrotta dalla ferita lacerante della guerra. È questo l’unico argomento in cui il suo slancio narrativo frena. «La guerra? Non fa mai bene, la guerra. Ricordo che avevo paura, paura dei bombardamenti, anche se grazie al cielo non ho perso nessuno tra i miei cari. Ma ci sono cose che non posso dimenticare. Avevo un amico, era fuggito per la campagna perché lo cercavano i tedeschi nei loro rastrellamenti. Mi ha detto: “Elvira, salutami i miei genitori”. Non è più tornato. Si chiamava Orlando, aveva 20 anni».

 

LA FAMIGLIA - La guerra per fortuna risparmiò la vita a Bruno Bordin, che sarebbe diventato suo marito. Tornò vivo dal fronte balcanico. «Me lo aveva presentato un amico, a una festa a Longare: lui mi ha chiesto se poteva accompagnarmi a casa e lì abbiamo iniziato a fare amicizia. Poi, è nata una simpatia». Ma sulla strada delle nozze arrivò la prima malattia della vita di Elvira. «La pleurite: in quelle condizioni non potevo sposarmi, l’ho detto a Bruno che se voleva stare con me doveva aspettare che guarissi». Bruno capì, e attese: si sposarono 5 anni dopo il primo “ciao”. «Lui aveva una famiglia numerosissima, in 22 in una casa, tre generazioni insieme, ma mi hanno accolta bene. Ho avuto un grande uomo accanto a me - racconta fiera - ci siamo sempre venuti incontro, siamo sempre stati insieme fino a quando lui è mancato 25 anni fa». E sono nati i quattro figli, uno dei quali, Augusto, ora vive con lei. «Oggi non riesco più ad arrangiarmi in tutto e allora lui mi assiste, non mi fa mancare niente: questa cosa l’abbiamo decisa tutti insieme, con tutti i miei figli».

 

LA MALATTIA E LE CURE - Rispetto, serenità, armonia, parole che ricorrono nel racconto di Elvira, che è nonna di dieci nipoti e bisnonna di due, e che di motivi per abbattersi ne avrebbe avuti. Uno su tutti: l’ictus. «Non camminavo e non parlavo più, ho compiuto 50 anni in ospedale, ma non mi sono mai arresa». Anzi, ne ha cavalcati altri 50 fino ad oggi. «Come ho fatto? Ho sempre pensato che sarei guarita. E così è stato. Anche grazie ai medici e alle medicine». A tal proposito, non ha dubbi nemmeno ora in piena pandemia: «Il vaccino contro il Covid? Fatto, doppia dose. Cosa direi a chi non lo fa? Che dovrebbe convincersi e che io sono nata in tempi in cui si moriva perché i vaccini non c’erano». E insiste nel ribadire la sua fede nell’armonia, «oltre che nel Signore, perché i pensieri negativi fanno male, le tristezze ti corrodono la mente».

 

FIORI AZZURRI -  Le gioie, invece, sono un unguento. Come quella indelebile del 2 ottobre 1988. «Era una domenica mattina, abitavamo in campagna - ricorda Elvira - Sono andata a raccogliere dei fiori che ho messo al centro della tavola. Li avevo trovati per caso di quel colore, azzurro, allora mi sono detta: devono portar bene. Quando mio figlio è arrivato agli ultimi metri della maratona ho detto: “Gelindo, dai che ce la fai”. E pensavo che mi sentisse». Sorride. «Poi quando ha tagliato il traguardo ho pianto. Ce l’aveva fatta, con le sue forze, dopo tante rinunce e sacrifici».

Gelindo, oggi 62enne, lo sa e sa quanto sua madre sia stata importante per la sua formazione di uomo e atleta. «È sempre stata il nostro riferimento - dice l’ex maratoneta -: i miei erano di origini contadine, ma mentre mio padre era di poche parole, mia mamma era ed è molto “moderna”, una mente aperta, ci ha sempre lasciato prendere le nostre strade, certo, indirizzandoci, ma senza imposizioni. Se io sono riuscito a mollare il lavoro di geometra a 24 anni per buttarmi nello sport, lo devo anche a lei. E poi i valori della campagna, quelli della famiglia, sono i valori che ci ha trasmesso e ci fanno ritrovare anche adesso, sebbene viviamo lontani».

 

«LA MIA MARATONA» - Oggi che ha cent’anni Elvira non riesce più «a lavorare a ferri, perché ho male a una spalla», ma ama leggere e mangiare leggero, «minestra, frutta e qualche volta carne». Oggi pranzerà con tutti i suoi figli e sarà un raduno atteso ed emozionante. Non ha rimpianti, ma memoria sì. «Oggi c’è il progresso, che ha portato molto, ma non a tutti purtroppo: e il problema di oggi è che manca la solidarietà tra le persone; quando ero giovane era un sentimento spontaneo, oggi non più».

A noi resta un’ultima curiosità, tra mille: ma dove ha imparato a parlare questo italiano così chiaro e pulito, lei che ha fatto la terza elementare ed è cresciuta a pane, campi e dialetto? Sorride. «Con i miei figli: quando andavano a scuola, mi mettevo lì con loro; e poi parlando con le persone, ci tenevo a non sfigurare».

Lucida e tenace, Elvira, come una vera maratoneta. «Sì, posso dirlo, la mia vita è stata una maratona, non ho sprecato forze in modo inutile nell’ira o nell’astio, la sera vado a letto serena e dormo tutta la notte. Una maratona, sì, e continua ancora».

 

Marco Scorzato

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