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Intrigo internazionale

L'albergatrice scarcerata a Zanzibar: «In cella in preda alla paura di non rivedere più mio figlio»

Francesca Scalfari tra il marito Simon Wood e il fratello Marco dopo la scarcerazione
Francesca Scalfari tra il marito Simon Wood e il fratello Marco dopo la scarcerazione
Francesca Scalfari tra il marito Simon Wood e il fratello Marco dopo la scarcerazione
Francesca Scalfari tra il marito Simon Wood e il fratello Marco dopo la scarcerazione

«La cosa più difficile, dopo sedici giorni di prigione, è smettere di piangere. Continuano ad arrivarci messaggi di solidarietà e incoraggiamento. Zanzibar non è terzo mondo se non nelle sue carceri, ora lo so». Al telefono, la voce di Francesca Scalfari si incrina ogni pochi munti per l’emozione. All’indomani dalla cancellazione delle accuse di riciclaggio di capitali e della riacquistata libertà insieme al marito Simon Wood, l’albergatrice vuole per prima cosa divulgare una promessa fatta alle venti compagne di cella con le quali si è trovata a dividere «una stanza simile a una gabbia per canarini»: «Mi impegnerò al massimo per dare loro una possibilità di recupero una volta uscite. Ero l’unica bianca: mi hanno aiutato e dato tantissima solidarietà, soprattutto nei primi giorni, quando ero in preda allo choc e terrorizzata dalla paura di non poter più rivedere mio figlio». Il “giallo internazionale” sulla proprietà dell’albergo Sharazad di Jambiani, che vede coinvolti come controparte i coniugi Viale di Bassano, ha avuto ampia eco in tutto il mondo. Sotto inchiesta per una serie di capi d’accusa, i Wood sono stati prosciolti da quelli più gravi e ora potranno affrontare il resto dell’inchiesta in libertà. «Qui prima ti incarcerano e poi ti danno la possibilità di difenderti - continua Francesca -. Se non puoi permetterti un avvocato, non ti danno quello d’ufficio. La vita è scandita dalla sirena della sveglia, alle 4 del mattino, e da quella della ritirata, alle 4 del pomeriggio. E le condizioni sono davvero terribili. Sono state addirittura peggiori per mio marito. Ma nulla ha scalfito il mio amore per quest’isola, dove ho scelto di vivere e dove continuerò a gestire l’hotel».
Già, l’hotel. A sentire Francesca, «abbiamo vinto la causa sulla proprietà, abbiamo vinto l’appello, abbiamo vinto la causa commerciale. È vero che una sentenza di questa primavera ha riconosciuto ai Viale la proprietà della maggioranza delle quote, ma l’efficacia di quella sentenza è stata sospesa, demandando di nuovo tutto al procedimento di appello. Mi è dispiaciuto leggere critiche sulla nostra conduzione dai nostri ex soci: ricordo che io e mio marito abbiamo vinto molti award e abbiamo portato la struttura a essere molto più remunerativa, salendo da 19 a 60 dipendenti».
Con i capitali dei Viale, però, è una delle contestazioni. «La spiegazione è semplice - prosegue Francesca -: loro insistevano per continuare a investire, con cifre che noi non potevamo permetterci. Siamo riusciti a stare al passo a costo di enormi sacrifici, ottenendo prestiti, proprio per non alterare le proporzioni delle quote. Abbiamo sempre cercato il dialogo, ci è stato risposto con lettere che attestavano diritti a nostro avviso inesistenti. Diciamo che noi siamo più sognatori, loro più rodati negli affari. Ma la partita non è finita e confido che la spunteremo in sede civile e penale». 

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Alessandro Comin

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