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ZIMBABWE, LA FINE DI UN INCUBO

Scene di giubilo davanti al parlamento dopo la deposizione di Mugabe. ANSA/AP PHOTO/BEN CURTIS
Scene di giubilo davanti al parlamento dopo la deposizione di Mugabe. ANSA/AP PHOTO/BEN CURTIS
Scene di giubilo davanti al parlamento dopo la deposizione di Mugabe. ANSA/AP PHOTO/BEN CURTIS
Scene di giubilo davanti al parlamento dopo la deposizione di Mugabe. ANSA/AP PHOTO/BEN CURTIS

Quando Robert Mugabe vinse le elezioni in quella che era conosciuta come Rhodesia e che da quel momento in avanti avrebbe preso il nome “nero” di Zimbabwe, Ronald Reagan stava ancora conducendo la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla Casa Bianca. Correva l’anno 1980, Mugabe aveva fama di rivoluzionario e combatteva la sua battaglia di giustizia contro la supremazia coloniale bianca. Nessuno, in quel momento, avrebbe immaginato che sarebbe diventato uno dei dittatori più nefasti della storia dell’Africa. E che sarebbe rimasto in sella per 37 lunghissimi e disastrosi anni. Fino a quando i militari hanno deciso di deporlo e segnare così la fine, alla veneranda età di 93 anni, del suo dominio. E l’inizio, a giudicare dalle scene di giubilo viste nelle piazze di Harare, della speranza per un popolo ridotto allo stremo delle forze.

«Dopo quasi 40 anni di guida Mugabe - ricorda The Economist - i cittadini dello Zimbabwe sono diventati, in media, un quinto più poveri. Quest’anno un quarto della popolazione ha rischiato la carestia: probabilmente dai 3 ai 5 milioni, su un totale di 17 milioni di abitanti, hanno deciso di emigrare per la disperazione».

E pensare che gli esordi di Mugabe erano stati salutati come l’inizio di un’era di giustizia e prosperità per un Paese che fino a quel momento era rimasto sotto il giogo dei colonialisti. Ma sono bastati pochi anni per capire che Mugabe, lungi dall’essere quel rivoluzionario illuminato che i movimenti cosiddetti anti-imperialisti celebravano, era in realtà un dittatore sanguinario. Nel 1983 scatenò le forze speciali, addestrate da istruttori nordcoreani, contro il secondo gruppo etnico del Paese, gli Ndebele, provocando migliaia di vittime. Piccolo ma non trascurabile dettaglio che non aiuta a dipingere un futuro radioso per lo Zimbabwe: Emmerson Mnangagwa, il 75enne che ha appena giurato (vedi articolo sotto) quale successore di Mugabe, all’epoca era ministro della Sicurezza. Insomma, se non è zuppa è pan bagnato, e la preoccupazione per quel che succederà di qui in avanti pare più che giustificata.

Al di là dei massacri iniziali, Mugabe ha completato l’opera devastando l’economia in nome di una concezione del socialismo che, come si è verificato anche altrove, ha prodotto disastri epocali. Ha dilapidato le risorse pubbliche per progetti improponibili e quando si è accorto di avere finito i soldi ha iniziato a stampare banconote. In pochi anni l’inflazione ha raggiunto livelli che la Repubblica di Weimar, in confronto, era Disneyland.

Di fronte a queste macerie cosa ci si può attendere dal futuro? Come detto, il passato del nuovo presidente non è così cristallino. «Nonostante tutto - considera The Economist - c’è comunque un briciolo di speranza. La classe di governo dello Zimbabwe ha comunque una certa dimestichezza con la democrazia e qualche volta ha pure perso le elezioni, per quanto i brogli su larga scala abbiano sempre giocato un ruolo importante. Mnangagwa può anche essere stato un teppista, ma oggi è un pragmatico, libero dal complesso del Messia che aveva allontanato Mugabe dal senso della realtà. Sa benissimo che le casse sono vuote e che lo Zimbabwe ha urgente bisogno dell’aiuto del Fondo monetario internazionale. E sta pensando a por fine a certe esiziali politiche di Mugabe, come per esempio la legge che richiede a tutte la aziende al di sopra di una certa dimensione di avere la maggioranza in mano a cittadini dello Zimbabwe neri». Un modo, ovviamente, per tenere lontani gli investitori che adesso, se il nuovo presidente confermerà le sue intenzioni, potrebbero tornare a recitare un ruolo di primo piano.

Insomma, l’uscita di scena di Mugabe basta e avanza per ridare ottimismo. A queste latitudini la qualità dei governi fa la differenza. La retorica marxisteggiante del Mugabe degli anni d’oro si è poi trasformata in sfracelli economici e caduta del benessere. Il crac ricorda da vicino quello che è successo in Venezuela, per quanto i due Paesi abbiano assai poco in comune. E, come conclude The Economist, la morale è che la democrazia rimane il miglior antidoto per evitare di incappare in pessimi governanti. Se ai cittadini dello Zimbabwe fosse stato permesso davvero di scegliere, avrebbero cacciato Mugabe e i suoi scagnozzi tanto tempo fa. E se ci fosse un’elezione onesta adesso, il suo successore potrebbe ripartire con tutta la legittimazione di cui ha bisogno». E stavolta il resto del mondo dovrebbe dare una mano.

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