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YEMEN TRA DILEMMI E SPERANZE

Due giovani sfrecciano in moto lungo la strada principale di Taiz, nello Yemen, una città distrutta dai bombardamenti e dagli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative. THE ASSOCIATED PRESSDue yemeniti davanti uno splendido palazzo a Sana. EPA/YAHYA ARHAB
Due giovani sfrecciano in moto lungo la strada principale di Taiz, nello Yemen, una città distrutta dai bombardamenti e dagli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative. THE ASSOCIATED PRESSDue yemeniti davanti uno splendido palazzo a Sana. EPA/YAHYA ARHAB
Due giovani sfrecciano in moto lungo la strada principale di Taiz, nello Yemen, una città distrutta dai bombardamenti e dagli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative. THE ASSOCIATED PRESSDue yemeniti davanti uno splendido palazzo a Sana. EPA/YAHYA ARHAB
Due giovani sfrecciano in moto lungo la strada principale di Taiz, nello Yemen, una città distrutta dai bombardamenti e dagli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative. THE ASSOCIATED PRESSDue yemeniti davanti uno splendido palazzo a Sana. EPA/YAHYA ARHAB

Sulla prima pagina del New York Times il giornalista Declan Walsh ha raccontato la drammatica situazione dello Yemen ponendo una questione che non ha esitato a definire etica. Lo Yemen è in questo momento il Paese forse più povero del mondo. Più povero perché la guerra che dura da quasi quattro anni tra il governo lealista, vicino all’Arabia Saudita, e i ribelli Houthi, vicini all’Iran, ha ridotto i 24 milioni di abitanti allo stremo delle forze. Stiamo parlando di una vera e propria carestia, dove più di metà della popolazione sta letteralmente morendo di fame, dopo che migliaia sono morti a causa del conflitto, altrettanti a causa di una devastante epidemia di colera e almeno 500 mila sono stati costretti a scappare per evitare di essere massacrati dal “nemico” o sotto i bombardamenti pesanti organizzati dall’Arabia Saudita. L’inviato è rimasto colpito e si è chiesto se non era il caso di mettere il computer da parte e dare una mano a chi stava morendo per strada. Era appena uscito da un ristorante di Sana, la capitale in mano agli Houthi (perché in Yemen si può mangiare, basta pagare...), quando si è visto circondato da mendicanti, da famiglie con bimbi malnutriti. «Per un reporter - ha scritto - questo porta con sé un dilemma. I giornalisti viaggiano in questi Paesi con fasci di banconote in valuta forte, di solito dollari, per pagare alberghi, trasporto e traduttori. Una piccola frazione di questo denaro potrebbe bastare a mantenere per un po’ una famiglia affamata. Avrei forse dovuto fermarmi, mettere giù il mio notebook e offrire aiuto concreto?». La risposta razionale è no, ognuno deve fare il proprio mestiere. Ma quando vedi che un bambino muore solo perché la famiglia non ha il denaro sufficiente per caricarlo su un taxi e portarlo in ospedale, come ha raccontato il giornalista, capisci che è difficile rimanere professionali e professionisti. E basta leggere questo reportage per capire che i negoziati iniziati questa settimana in Svezia tra i governativi e gli Houthi, sotto la supervisione dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths, sono forse l’ultima occasione per por fine a questa guerra dimenticata e drammatica. A leggerla nei manuali di geopolitica, altro non è se non l’ennesimo campo di battaglia per misurare la supremazia nel mondo islamico tra i sunniti che fanno riferimento all’Arabia Saudita, la cui immagine è stata recentemente screziata dall’omicidio del giornalista Khashoggi del Washington Post a Istanbul, e gli sciiti rappresentati e guidati dall’Iran degli ayatollah. Inutile star qui a disquisire se nello Yemen hanno ragione i ribelli Houthi o i governativi: entrambi si sono macchiati di crimini e l’Arabia ha scaricato tonnellate di bombe sulla popolazione civile solo perché residente nei territori occupati dai ribelli. Così come dai territori Houthi sono partiti i missili diretti proprio in Arabia. È per questo che tra i primi obiettivi dei negoziati che si stanno svolgendo in Svezia, dove gli esponenti delle due parti in causa si sono trovati faccia a faccia dopo oltre due anni, c’è quello dello scambio di tremila prigionieri che non vedono le rispettive famiglie da anni. Il Comitato internazionale della Croce rossa ha confermato che svolgerà un ruolo di facilitazione nello scambio. Tra le condizioni imposte per procedere col negoziato c’era quella del cessate il fuoco nello Yemen, ma la situazione in alcune parti è fuori controllo. In ogni caso le trattative vanno avanti. Lo stesso Griffiths, sempre sulle colonne del New York Times, si è detto fiducioso per il porto di Al Hudaydah, una sorta di hub per far entrare nel Paese le risorse necessarie alla vita e finora finito sotto le bombe. Secondo l’inviato delle nazioni Unite questo permetterà di contenere la carestia, prima di avviare una parvenza di vita normale in un Paese ricco di storia e di tradizione. Alla fine del reportage l’inviato del New York Times rivela di aver dato l’equivalente di 15 dollari a un padre che aveva in braccio il figlio malnutrito di nove mesi. Da qualche parte bisogna pure incominciare. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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