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TEMPO DI EGEMONIA ILLIBERALE

Donald Trump, il presidente che sta scuotendo gli Stati Uniti d’America. EPA/JIM LO SCALZO
Donald Trump, il presidente che sta scuotendo gli Stati Uniti d’America. EPA/JIM LO SCALZO
Donald Trump, il presidente che sta scuotendo gli Stati Uniti d’America. EPA/JIM LO SCALZO
Donald Trump, il presidente che sta scuotendo gli Stati Uniti d’America. EPA/JIM LO SCALZO

Dov’è finito il presidente dell’America First? Per carità, l’ultima decisione di applicare i dazi sull’acciaio e sull’alluminio lascia intendere che le promesse, o meglio, le minacce che Donald Trump ha distribuito durante la campagna elettorale delle ultime presidenziali rischiano di essere mantenute. Ma se guardiamo a quel che sta succedendo nel campo minato della politica estera, l’intenzione sbandierata di uscire da più o meno tutte le guerre, calde o fredde, e l’avviso di scadenza pagamenti inoltrato agli alleati della Nato, non sembrano avere modificato granché il ruolo di potenza egemone degli Stati Uniti. Con una sola grande differenza, come dire, filosofica, rilevata da Barry R. Posen, direttore del Programma di studi sulla sicurezza al Massachusetts Institute of Technology, su Foreign Affairs: Trump è passato dal perseguimento dell’ideale “potabile” dell’egemonia liberale all’obiettivo indifendibile dell’egemonia illiberale. «Almeno dalla fine della Guerra fredda - scrive Posen - sia le amministrazioni democratiche che quelle repubblicane seguivano una strategia globale che gli studiosi hanno chiamato egemonia liberale. Egemonica, nel senso che gli Stati Uniti avevano come obiettivo quello di rimanere di gran lunga la più grande potenza del mondo; però anche liberale, nel senso di cercare di trasformare il sistema internazionale in un sistema di regole e relazioni guidato da istituzioni multilaterali e gli altri Stati in democrazie orientate al mercato e intenzionate a commerciare liberamente tra loro». Occorre dire che non tutto è filato liscio. Da Bush padre a Bush figlio, passando per Bill Clinton e arrivando infine a Barack Obama, la bandiera dei valori universali che sventola, o dovrebbe sventolare, idealmente nei Paesi occidentali è stata spesso “sporcata” da interventi militari americani bollati come “imperialisti” o, comunque, dettati solo dall’interesse e non dalla romantica idea liberale. Si pensi in particolare agli anni di George W. Bush successivi all’attentato devastante dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York: la rivoluzionaria cornice ideale dell’esportazione della democrazia, sia pure sulla punta delle baionette, si è scontrata con la realizzazione pratica di due guerre, prima in Afghanistan e poi in Iraq, che non solo sono valse accuse feroci da parte della comunità internazionale a Washington, ma hanno finito anche con l’andare contro gli interessi degli Stati Uniti. Le promesse elettorali di Obama improntate all’obiettivo di por fine a tutti i conflitti in corso si sono poi scontrate col realismo di una situazione mediorientale compromessa proprio dagli interventi americani. Morale della favola, l’elettore americano ha creduto in Trump che, senza agghindare di troppi fiocchetti il pacchetto programmatico, ha di nuovo assicurato che il Paese sarebbe tornato a guardarsi il proprio ombelico, uscendo dalle guerre che nulla avevano a che fare con gli interessi dei cittadini. America First, appunto. A oltre un anno dall’ingresso del tycoon alla Casa Bianca, però, la musica suonata al di fuori dei confini nazionali è un po’ diversa. «Anche Trump cerca di mantenere la supremazia economica e militare degli Stati Uniti - scrive Posen su Foreign Affairs - così come persegue il ruolo di arbitro della sicurezza della maggior parte delle regioni del mondo, ma ha scelto di rinunciare all’esportazione della democrazia e di astenersi da molti accordi multilaterali. In altre parole Trump ha introdotto una strategia americana interamente nuova: l’egemonia illiberale». Non è un caso se ha annunciato di investire nel Pentagono, e quindi nella difesa, una somma di denaro superiore a quella spesa da tutti i Paesi competitor messi assieme. E in quest’ottica diventano persino più comprensibili i preoccupanti annunci di corsa al riarmo nucleare di Vladimir Putin, il leader russo che, stando alle accuse che per ora hanno indotto alle dimissioni diversi stretti collaboratori di Trump, avrebbe recitato un ruolo decisivo, ancorché coperto, per favorire l’ultimo risultato delle elezioni presidenziali americane. Il risultato vero, almeno per ora, è che l’Europa sta pensando di difendersi da sola, in particolare da Putin stesso, e che la guerra dei dazi in stile sovranista dichiarata da Trump al Vecchio continente rischierà di distruggere il libero mercato di cui, finora, gli Stati Uniti sono stati i primi difensori. In compenso le guerre continueranno con il poco nobile scopo di dimostrare che il Paese più potente resta l’America. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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