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TAIWAN, AVAMPOSTO DI LIBERTÀ

Un manifestante espone uno striscione: Taiwan non è cinese. Nell’isola si stanno riunendo tutti i movimenti di protesta dopo che a Hong Kong la censura della Cina è diventata molto più severa. EPA/DAVID CHANG Un grattacielo a Taipei, capitale di Taiwan. EPA/DAVID CHANG
Un manifestante espone uno striscione: Taiwan non è cinese. Nell’isola si stanno riunendo tutti i movimenti di protesta dopo che a Hong Kong la censura della Cina è diventata molto più severa. EPA/DAVID CHANG Un grattacielo a Taipei, capitale di Taiwan. EPA/DAVID CHANG
Un manifestante espone uno striscione: Taiwan non è cinese. Nell’isola si stanno riunendo tutti i movimenti di protesta dopo che a Hong Kong la censura della Cina è diventata molto più severa. EPA/DAVID CHANG Un grattacielo a Taipei, capitale di Taiwan. EPA/DAVID CHANG
Un manifestante espone uno striscione: Taiwan non è cinese. Nell’isola si stanno riunendo tutti i movimenti di protesta dopo che a Hong Kong la censura della Cina è diventata molto più severa. EPA/DAVID CHANG Un grattacielo a Taipei, capitale di Taiwan. EPA/DAVID CHANG

Il pugno di ferro di Xi Jinping, il leader che si è fatto incoronare imperatore eterno della Cina, sbriciola le illusioni di Hong Kong. E le bandiere di libertà e democrazia, che fino al 1997 sono sventolate insieme all’Union Jack della Gran Bretagna, a queste latitudini si sono spostate sui grattacieli di Taiwan, isola di luce in questo mare di asiatico oscurantismo. Sissignori, Taiwan ha preso il posto di Hong Kong. E pensare che, fino al 1987, in quella che fu una dittatura prima controllata da Chiang Kai-shek e poi dal figlio, vigeva la legge marziale. Mentre il governo britannico assicurava il rispetto delle rule of law lontano dalla madre patria ma solo fino alla scadenza del “contratto”: nel 1997 l’avamposto del capitalismo occidentale in Asia è stato restituito alla Cina, che però si era solennemente impegnata a rispettare il principio “un Paese, due sistemi” per almeno 50 anni, fino al 2047. Cioè: Hong Kong è Cina ma il sistema che lo regola doveva rimanere quello democratico-liberale. Il progetto non ha retto alla prova dei fatti. Per un po’ l’adozione delle regole del capitalismo, per quanto depurate dal “fastidio” della democrazia, da parte della Cina ha permesso a Hong Kong di proseguire sulla falsariga del protettorato britannico. Ma alla fine il progetto più stringente di Xi Jinping, da poco diventato presidente senza scadenza, e quindi dittatore a vita, col beneplacito del partito comunista, non poteva conciliarsi con le libertà respirate nei decenni precedenti. Quando si sono accorti che le elezioni fino ad allora libere degli organi istituzionali di Hong Kong sono state rimpiazzate dalla scelta tra candidati imposti da Pechino, i giovani sono scesi in piazza. Era il 2014 e quello passato alla storia come il “Movimento degli ombrelli” alla fine è stato sconfitto dalla feroce determinazione della Cina a far valere il proprio sistema. A raccogliere, idealmente e concretamente, il testimone di Hong Kong è stata Taiwan. Come ricorda il New York Times, adesso è in quest’isola che attrae il maggior numero di dissidenti cinesi e che ospita gli eventi organizzati dai gruppi in difesa dei diritti. «Un editore di Hong Kong che era stato deportato in Cina dagli agenti segreti un paio di anni fa e poi rilasciato - scrive il New York Times - riaprirà il suo negozio di libri a Taiwan». In realtà nel 2015 sono stati cinque gli editori di Hong Kong rapiti e deportati in Cina. La loro colpa? Aver pubblicato libri con critiche e sberleffi ai leader di Pechino. «Lam Wing-kee, uno dei cinque, che ha raccontato di essere rimasto per cinque mesi in una cella di isolamento e costretto a fare una pubblica confessione - scrive il New York Times - sta progettando di riaprire la sua attività a Taiwan. “Noi di Hong Kong - ha dichiarato al quotidiano americano l’editore prima incarcerato e poi rilasciato - guardiamo a Taiwan per apprendere la lezione. E la gente di Taiwan cerca di capire in che modo la Cina esercita il controllo su Hong Kong”». Non bisogna dimenticare che da sempre Pechino rivendica Taiwan come suo territorio. Per cui non c’è molto da sorprendersi se, accanto alla fama di isola di democrazia, questa enclave di libertà debba a volte fare i conti con la real politik e con alcuni provvedimenti adottati dalle istituzioni che sono in contraddizioni con i valori propugnati. È successo, per esempio, che Taiwan ha rispedito a Pechino un attivista che aveva presentato richiesta di asilo politico proprio per evitare persecuzioni a casa. Inoltre dalla Cina adesso è molto più difficile ottenere visti d’ingresso per Taiwan. Zhao Sile, giornalista e scrittore che si occupa dei temi della società civile in Cina, ha dichiarato in un’intervista, ricorda il New York Times, che ci sono molti esponenti di associazioni non governative e università che fanno arrivare relatori cinesi usando visti di tipo medico per aggirare l’ostacolo. Resta il fatto che per Hong Kong la censura di Pechino si è fatta sempre più pesante. E il clima di libertà che si respirava fino al ’97 adesso si è trasformato in buio fitto. Per ritrovarlo occorre volare a Taiwan. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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