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LE GUERRE DA FINIRE DEGLI USA

Una torre di Raqqa con la bandiera nera simbolo dello Stato Islamico: la capitale dell’Isis è caduta
Una torre di Raqqa con la bandiera nera simbolo dello Stato Islamico: la capitale dell’Isis è caduta
Una torre di Raqqa con la bandiera nera simbolo dello Stato Islamico: la capitale dell’Isis è caduta
Una torre di Raqqa con la bandiera nera simbolo dello Stato Islamico: la capitale dell’Isis è caduta

L’America non può permettersi di dimenticare le guerre che ha cominciato dopo l’11 settembre 2001. E anche se molti, con qualche fondamento, ritengono che proprio gli attacchi ordinati da George W. Bush contro l’Afghanistan e l’Iraq siano stati i detonatori che hanno fatto saltare in aria il Medio Oriente, adesso Washington non può chiamarsi fuori. Chi rompe paga e deve cercare di mettere insieme i cocci.

L’ultimo numero della rivista Foreign Affairs dedica analisi approfondite alle guerre dimenticate dell’America e il quadro che ne esce è in contrasto con quelle che erano le intenzioni dichiarate in campagna elettorale dagli ultimi due presidenti, il democratico Barack Obama e il repubblicano-populista Donald Trump: entrambi erano partiti con l’intenzione di programmare un progressivo disimpegno in Afghanistan e in Iraq ed entrambi hanno finito per autorizzare un maggiore impegno tanto a Kabul quanto a Baghdad. Con l’aggiunta dell’attenzione massima alla Siria a alla minaccia oggi ritenuta prioritaria della Russia.

Kosh Sadat e Stan McChrystal, due alti ufficiali dell’esercito che hanno lavorato per anni sul fronte afghano, hanno ricordato la nuova strategia annunciata da Trump in agosto: «Gli Stati Uniti continueranno ad impegnarsi in Afghanistan aumentando sia pure leggermente il numero delle truppe per migliorare la professionalità delle forze di sicurezza afghane e raddoppiando le operazioni antiterrorismo contro lo Stato islamico». I due autori non potevano fare a meno di sottolineare come la decisione di Trump, fortemente caldeggiata dal Pentagono, stridesse maledettamente con la politica dell’America First gridata dal presidente. «In verità – sostengono – non c’erano molte possibilità di agire diversamente: ritirare completamente i soldati avrebbe avuto come conseguenza quella di consentire alle varie formazioni terroriste di trasformare il Paese in quel rifugio sicuro che era prima dell’11 settembre». In sostanza, Washington deve continuare quello che ha fatto con Obama, cioè dedicare attenzione e uomini all’Afghanistan tornato nel mirino dei talebani ma, sintetizzano Sadat e McChrystal, deve farlo meglio. E sa questo punto di vista torna, al punto di vista strategico militare, il fattore chiave per i lsuccesso di questa strategia: il rapporto col Pakistan. Così come accadeva con i mujahideen negli anni 80 durante la guerra con la Russia, i talebani sono organizzati in tre aree del Pakistan: Balkuchistan, Waziristan e la provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Come succedeva in Laos e dintorni durante la guerra in Vietnam, operazioni dirette in Pakistan non sarebbero ammesse: ma non farle e rimanere in atteggiamento puramente difensivo attendendo il prossimo attacco non pare il modo migliore per fare passi avanti. Ecco perché si deve cercare di nuovo una collaborazione vera con Islamabad. E nel caso non si trovasse, è il ragionamento di Foreign Affairs, comunque bisogna andare a colpire i talebani a casa loro.

In Iraq le cose sono andate, se possibile, ancora peggio. Dopo la dichiarazione avventata di Bush poco dopo la caduta di Saddam (“Missione compiuta”), gli Stati Uniti hanno portato avanti una meritoria attività di ricostruzione democratica dello Stato. Ma le ottime intenzioni si sono scontrate con le elezioni del 2010, quando Iraqiya, il partito nazionalista di Ayad Allawi, sconfisse di poco il Dawa Party del primo ministro uscente, Nouri al-Maliki. Obama in quel momento ritenne che un governo di al-Maliki fosse nell’interesse degli Stati Uniti, senza rendersi conto che nel frattempo anche Teheran stava investendo pesantemente sullo schieramento sciita guidato dal primo ministro uscente, al punto da convincere il leader del movimento sadrista Muqtada al-Sadr ad appoggiarlo. Il via libera dell’Iran al governo di al-Maliki ha indotto quest’ultimo a tenere un atteggiamento intransigente con gli esponenti politici sunniti, definendoli terroristi e mettendoli ai margini dell’attività del Paese. «Sentendosi traditi e discriminati dal governo del proprio Paese – sintetizza Foreign Affairs – molti sunniti hanno pensato che l’Isis fosse il minore dei mali».

La cacciata degli assassini del Califfo da Mosul e da Raqqa è costata molte vite umane e anni di tragedie in Medio Oriente e, a causa del terrorismo griffato Isis, in tutto l’Occidente. La lezione è servita e adesso neanche Trump può chiamarsi fuori.

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