Anche nelle dittature islamiche la rivoluzione si può fare per via giudiziaria. Nonostante a promuoverla sia un autorevole rappresentante del regno saudita, il principe erede al trono Muhammad bin Salman, 32 anni. Il clamoroso arresto di circa 200 autorevoli appartenenti ai circoli del potere di Riad, a cominciare dal tycoon Walid bin Talal, ricchissimo principe con investimenti importanti in società della finanza globale e parte di una branca della famiglia reale ostile all’ascesa di bin Salman, è considerato un golpe studiato a messo in pratica per due motivi interconnessi tra di loro: primo, riaffermare la leadership saudita nel mondo islamico dichiarando di fatto guerra all’Iran, feroce concorrente geopolitico nell’area e in particolare nei fronti aperti in Libano e in Yemen; secondo, spingere per una versione moderata dell’Islam il cui aperitivo potrebbe essere considerato il via libera, concesso a settembre, al permesso di guidare alle donne.
GOLPE. «Il principe - sintetizza The Economist - ha messo in atto un golpe di palazzo, o forse sarebbe meglio dire un contro-golpe contro gli oppositori che nelle alte sfere cercavano di contrastare i suoi progetti di radicale cambiamento. E adesso è diventato, ad appena 32 anni, l’uomo più potente dell’Arabia Saudita dai tempi del re Abdel-Aziz bin Saud, vale a dire il fondatore dello Stato. Tutto lascia indicare che il principe possa diventare il precursore delle profonde riforme di cui il Paese ha bisogno. Anche se rimane il rischio che questa rivoluzione “moderata” finisca per trasformarsi nell’ennesima fallimentare dittatura araba».
BRAND. Visto dall’occidente, il brand “Mbs”, così è sintetizzato il nome del principe erede al trono, suscita molte speranze. Il perché si spiega con l’evoluzione dell’area degli ultimi decenni. L’Arabia Saudita è da tempo uno storico alleato degli Stati Uniti e dell’Europa e, soprattutto per motivi economico-petroliferi, quest’asse ha retto nonostante Riad sia sempre rimasta la roccaforte del Wahhabismo, la versione più radicale dell’islam preso come punto di riferimento religioso dal terrorismo jihadista, a cominciare da Osama bin Laden, non a caso nato a Riad. Da questo punto di vista l’intenzione di Mbs di allentare il potere e la rigidità dottrinale della polizia religiosa non può che essere accolta con favore dalle democrazie occidentali, che però dovrebbero, come auspica anche The Economist, «consigliare al principe di agire con cautela, evitando un’escalation pericolosa dello scontro con l’Iran e introducendo più libertà politiche in Arabia».
PROSPETTIVE. Facile a dirsi, non altrettanto a farsi. Se Mbs ha sufficienti credenziali per meritarsi un’apertura di credito sulle intenzioni di rimodulare in senso più moderno il sistema di vita in Arabia, la tensione tra Paesi islamici vicini è così alta da far pensare di essere arrivati sull’orlo di una guerra. In primo luogo con l’Iran, che sta sostenendo tutte le cause dei Paesi in rotta di collisione con Riad. Libano, Yemen, Qatar, solo per citare le tre mine innescate lungo il percorso a ostacoli che caratterizza in questo momento il rapporto tra mondo sciita, guidato da Teheran, e mondo sunnita di cui è rappresentante Riad. Nei giorni scorsi l’Arabia, o meglio, la coalizione che combatte i ribelli Houthi sostenuti da Teheran, aveva disposto la chiusura degli scali terrestri, marittimi e aerei dello Yemen, il tutto per rispondere al lancio di un missile, fornito dall’Iran agli oppositori yemeniti, verso la capitale saudita Riad. Situazione incandescente anche in Libano, dove lo scontro tra gli hezbollah sostenuti dall’Iran e l’Arabia lascia pensare a una nuova prossima guerra destinata a coinvolgere ancora Israele che in questo momento ha diversi nemici in comune con Riad. Il tutto mentre Mbs dovrà anche affrontare l’immane compito di riformare l’economia interna, riducendo la dipendenza fin qui totale dal petrolio e promuovendo la quotazione della compagnia Aramco. Non sarà una passeggiata.