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LA PRIMAVERA DEI MILITARI

La protesta nelle strade di Algeri viene repressa dalla forze di polizia. I militari hanno contribuito alla deposizione di Bouteflika ma ora il popolo vuole una garanzia di cambiamento. Che non c’è. EPA/MOHAMED MESSARAUna manifestante per la libertà del Sudan a Khartoum. EPA
La protesta nelle strade di Algeri viene repressa dalla forze di polizia. I militari hanno contribuito alla deposizione di Bouteflika ma ora il popolo vuole una garanzia di cambiamento. Che non c’è. EPA/MOHAMED MESSARAUna manifestante per la libertà del Sudan a Khartoum. EPA
La protesta nelle strade di Algeri viene repressa dalla forze di polizia. I militari hanno contribuito alla deposizione di Bouteflika ma ora il popolo vuole una garanzia di cambiamento. Che non c’è. EPA/MOHAMED MESSARAUna manifestante per la libertà del Sudan a Khartoum. EPA
La protesta nelle strade di Algeri viene repressa dalla forze di polizia. I militari hanno contribuito alla deposizione di Bouteflika ma ora il popolo vuole una garanzia di cambiamento. Che non c’è. EPA/MOHAMED MESSARAUna manifestante per la libertà del Sudan a Khartoum. EPA

Il clima di oggi è quello già respirato durante la stagione della speranza passata alla storia come Primavera araba. Correva l’anno 2011, e dal Maghreb al Medio oriente il suicidio di un ambulante tunisino, avvenuto a dicembre del 2010, era diventato l’innesco per fare esplodere le rivolte popolari contro i dittatori che fino ad allora avevano governato col pugno di ferro per fare ingoiare ai “sudditi” il disagio di sopravvivere senza libertà e in condizioni di povertà estrema. Il soffio della rivolta diventò tempesta in piazza Tahrir, al Cairo, dove migliaia di giovani di fatto provocarono la caduta del “faraone” Mubarak, ottenendo la garanzia di libere elezioni e di un futuro rivoluzionario e democratico. Sappiamo come è andata a finire, un po’ a tutte le latitudini, eccezion fatta per la Tunisia, forse l’unico Paese in cui le promesse e le premesse sono state mantenute. Al Cairo, dopo la vittoria elettorale dei Fratelli musulmani, invero assai poco propensi ad applicare le regole democratiche, e la nomina a presidente di Mohamed Morsi, ci ha pensato il generale al-Sisi a ripristinare la “legalità”, riportando le lancette ai tempi di Mubarak. Finirà così anche per tutte quelle rivolte che proprio in questi giorni stanno dispiegando effetti radicali e imprevedibili in Algeria, Sudan e Libia? Difficile dirlo, ma quello che sta succedendo autorizza a ribattezzare questa stagione come “Primavera dei militari”, furbi a intercettare i malumori del popolo per dare l’impressione, riecheggiando Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che tutto cambia senza che in realtà nulla di nuovo succeda sotto il sole cocente di questa assai arida parte del mondo. Prendiamo per esempio l’Algeria, che tra l’altro ha già sperimentato una sanguinosa guerra civile decennale combattuta tra gli islamisti salafiti, che avevano vinto le elezioni, e il governo che si era ripreso il potere, allo stesso modo di al-Sisi in Egitto, con un colpo di stato. Adesso il popolo è sceso in piazza contro Bouteflika, l’anziano e infermo presidente accusato di reggere le sorti di un regime pervaso dalla corruzione. La sua posizione era indifendibile e i militari lo hanno capito, prendendo in apparenza le parti del popolo e contribuendo a deporre il leader, salvo poi proporre alternative più o meno in linea con la vecchia guardia. E così i giovani sono tornati a manifestare. Che dire poi del regime change in Sudan? Omar Hasan Ahmad al-Bashir era saldamente al comando da una vita, nonostante la condanna della Corte dell’Aja per il genocidio commesso in Darfur. Il Sudan è stato uno dei Paesi più devastati dalle guerre intestine, sfociate nella secessione del Sud Sudan e foriere di genocidi e violenze. Alla fine i semi della Primavera araba hanno fatto germogliare anche a queste latitudini la rivolta popolare contro questo losco figuro ancora riverito da capi di stato col pelo sullo stomaco. A dare riscontro alle comprensibili richieste di un popolo stremato composto in gran parte da giovani senza prospettive e senza potere sono stati, al solito, i militari. Che hanno deposto il presidente suscitando l’iniziale esultanza dei manifestanti. La lezione, però, si è srotolata con il solito canovaccio abilmente studiato e messi in pratica negli altri Paesi: tutto cambia, appunto, perché nulla cambi. «Il giorno dopo il colpo di Stato militare che sull’onda di mesi di proteste di piazza ha portato alla caduta dell’ultratrentennale autocrate Omar al-Bashir - ha scritto nella sua corrispondenza dal Cairo per l’Ansa Rodolfo Calò - continua a profilarsi un duello tra forze armate e oppositori in sit-in anche se i generali per ora hanno evitato di usare il pugno di ferro contro la folla che ha violato il coprifuoco. Ma, in maniera clamorosa, i militari hanno dichiarato che non estraderanno Bashir all’Aja dove è ricercato per il genocidio in Darfur». Inutile aggiungere che l’altra insurrezione del generale Khalifa Haftar in Libia, invero opaca e dai contorni internazionali poco chiari, porta la griffe dei militari. La democrazia in queste lande desolate fatica ad attecchire. Meno che mai quando la si sventola sulle punte della baionette. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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