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LA BREXIT SPACCA IL BIPOLARISMO

Un manifestante contrario alla Brexit manifesta davanti agli uffici governativi a Londra. Con la nomina di Boris Johnson a premier le probabilità per il Regno Unito di uscire dall’Unione europea senza un accordo aumentano. EPA/ANDY RAINBoris Johnson, il primo ministro duro e puro contro l’Unione europea
Un manifestante contrario alla Brexit manifesta davanti agli uffici governativi a Londra. Con la nomina di Boris Johnson a premier le probabilità per il Regno Unito di uscire dall’Unione europea senza un accordo aumentano. EPA/ANDY RAINBoris Johnson, il primo ministro duro e puro contro l’Unione europea
Un manifestante contrario alla Brexit manifesta davanti agli uffici governativi a Londra. Con la nomina di Boris Johnson a premier le probabilità per il Regno Unito di uscire dall’Unione europea senza un accordo aumentano. EPA/ANDY RAINBoris Johnson, il primo ministro duro e puro contro l’Unione europea
Un manifestante contrario alla Brexit manifesta davanti agli uffici governativi a Londra. Con la nomina di Boris Johnson a premier le probabilità per il Regno Unito di uscire dall’Unione europea senza un accordo aumentano. EPA/ANDY RAINBoris Johnson, il primo ministro duro e puro contro l’Unione europea

C’era una volta il bipolarismo. Sembra un secolo fa, ma sono passati pochi mesi, massimo un anno. Il Regno Unito, con quel sistema elettorale imperniato sull’uninominale secco, teorica garanzia di un’alternanza di governi stabili tra conservatori e laburisti, ora si trova spacchettato in quattro o cinque partiti come l’Italia del Porcellum. Colpa della Brexit, o meglio, colpa di Theresa May che col suo buonsenso non è riuscita a trascinare dalla sua parte il parlamento, a causa di un partito conservatore dilaniato, e quindi ad attuare l’accordo raggiunto con l’Unione europea per una Brexit, come dire, ordinata. La mancata consegna agli inglesi dell’uscita dall’Ue, pretesa da un referendum stravinto in gran parte del Paese e clamorosamente perso a Londra e in Scozia, ha dato il via a un rompete le righe tra gli elettori che ha prodotto il suo primo cataclisma alle ultime paradossali (non si sarebbero dovute tenere se la Brexit fosse diventata operativa) elezioni europee. Più che cancellare il bipolarismo, la devastante gestione del processo che avrebbe dovuto portare alla Brexit ne ha prodotto uno di diverso: non più conservatori contro laburisti, ma brexiteers contro chi invece dall’Europa non vuole uscire. Almeno in questo modo, senza regole e con i rischi di inchiodare il Paese. La nomina di Boris Johnson alla guida tanto del partito conservatore quanto del governo ha ricompattato la schiera dei sostenitori duri e puri dell’uscita. Ma nello stesso tempo la scelta della 39enne Jo Swinson quale nuova leader dei liberaldemocratici, il partito tradizionalmente minoritario ma con una rappresentanza in parlamento, ha ridato fiato e speranza a chi in Europa vuole rimanere. E se alle ultime Europee il successo clamoroso del Brexit Party del redivivo Nigel Farage, diventato primo partito a spese dei Tories, aveva un significato ben preciso, e cioè «Dateci quello che il popolo ha votato al referendum», alla consultazione politica per assegnare un collegio in Galles pochi giorni fa il trionfo della candidata liberaldemocratica ai danni del rappresentante conservatore assume invece due significati: da un lato che i laburisti di Jeremy Corbyn sono ormai fuori dai giochi e dall’altro che lo schieramento ideale contro la Brexit sta serrando i ranghi. E, nel caso specifico, ha tolto un conservatore pro Brexit al parlamento riducendo la maggioranza a un solo voto. E siccome il via libera alla Brexit deve comunque passare per Westminster, si può fin d’ora prevedere che, a prescindere dalla sbornia di popolarità e ottimismo diffusa tra i Tories dopo l’ascesa di Johnson, non sarà una passeggiata. Vale la pena analizzare quello che è successo nel seggio di Brecon e Radnorshire in Galles. Il candidato Tory, Chris Davies, già finito nella polvere per un caso di falso sui rimborsi parlamentari e costretto per questo a rimettere in palio il proprio scranno (in Inghilterra, paese serio, funziona così), è stato sconfitto dalla liberaldemocratica e pro Ue Jane Dodds, capace di riconquistare un vecchio feudo ceduto nel 2015 dopo 18 anni di dominio. A darle una mano, e questo è un modello che potrebbe ripetersi anche ad altre latitudini, è stato l’appoggio ricevuto dai Verdi e dal partito gallese Plaid Cymru, che non si sono presentati alle elezioni e hanno indotto i propri elettori a convogliare i voti verso i liberaldemocratici. Considerate le premesse, non pare azzardato aspettarsi un’ulteriore divisione dell’elettorato. Tra i conservatori resiste un’ala che originariamente aveva fatto la campagna per i Remain e che adesso, perlomeno, non sta dalla parte di Johnson quando proclama di volere la Brexit a qualsiasi costo. Di sicuro il nuovo leader Tory si riprenderà i voti consegnati a Farage alle ultime europee. Ma con altrettanta sicurezza si può anticipare che la strategia dei liberaldemocratici capitanati da Jo Swinson di sostenere senza se e senza ma la causa dell’appartenenza all’Ue contribuirà a drenare consensi tanto dai conservatori a trazione populista, quanto ai laburisti privi di bussola di Jeremy Corbyn. La strada è ancora lunga. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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