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LA BREXIT MINA I CONSERVATORI

La premier del Regno Unito, Theresa May, mentre illustra a Bruxelles gli ultimi accordi presi con l’Unione europea. Ci sarà tempo fino a ottobre per raggiungere un’intesa, ma ora si profilano le elezioni. ANSA/AP PHOTO/FRANCISCO SECONigel Farage lancia il Brexit Party a Coventry. ANSA/AP PHOTO/RUI VIEIRA
La premier del Regno Unito, Theresa May, mentre illustra a Bruxelles gli ultimi accordi presi con l’Unione europea. Ci sarà tempo fino a ottobre per raggiungere un’intesa, ma ora si profilano le elezioni. ANSA/AP PHOTO/FRANCISCO SECONigel Farage lancia il Brexit Party a Coventry. ANSA/AP PHOTO/RUI VIEIRA
La premier del Regno Unito, Theresa May, mentre illustra a Bruxelles gli ultimi accordi presi con l’Unione europea. Ci sarà tempo fino a ottobre per raggiungere un’intesa, ma ora si profilano le elezioni. ANSA/AP PHOTO/FRANCISCO SECONigel Farage lancia il Brexit Party a Coventry. ANSA/AP PHOTO/RUI VIEIRA
La premier del Regno Unito, Theresa May, mentre illustra a Bruxelles gli ultimi accordi presi con l’Unione europea. Ci sarà tempo fino a ottobre per raggiungere un’intesa, ma ora si profilano le elezioni. ANSA/AP PHOTO/FRANCISCO SECONigel Farage lancia il Brexit Party a Coventry. ANSA/AP PHOTO/RUI VIEIRA

Marino Smiderle LONDRA A Londra la voce del resto del Regno Unito arriva ovattata, modificata dai filtri cosmopoliti e multietnici che tengono il ritmo della capitale. Nel frattempo, però, quella voce, piaccia o no, è diventata un urlo. I moderati, attaccati alla tradizione (di un Paese in cui la tradizione è considerata un valore), stanno diventando meno moderati. Molto meno moderati. Il sì alla Brexit, interpretato e quasi snobbato alla stregua di un rutto populista, doveva essere una complicata formalità burocratica da adempiere per sancire l’uscita del Paese dall’Unione europea e si sta invece trasformando in un cataclisma che rischia di rifare i connotati al sistema politico imperniato da decenni nell’alternanza a Downing Street tra conservatori e laburisti. Di più, la Brexit è diventata una mina in questo momento in mano ai conservatori: la sensazione è che la sua esplosione, data ormai per certa qualsiasi sia la soluzione adottata, potrebbe relegare il partito Tory ai margini di Westminster, se non addirittura farlo sparire. Esagerazioni? Quando quattro anni fa David Cameron riuscì, con una certa sorpresa, a riportare al governo i conservatori dopo 13 anni di “laburismo moderno”, cioè griffato Tony Blair e quindi tenuto a distanza di sicurezza dall’anima di sinistra del partito, tutto sembrava rientrare nella normalità di un grande partito che sentiva la nostalgia di Margaret Thatcher ma che era stato capace di rinnovarsi sulla base delle nuove istanze dell’epoca. C’era solo una piccola ombra che ancora gravava su quel mondo conservatore orgoglioso da sempre di essere britannico: il rapporto di odio-amore con l’Unione europea mai chiarito fino in fondo, fin dai tempi della Thatcher che aveva ereditato la tessera di socio scettico. A costruire una fortuna su questo rapporto difficile ha pensato Nigel Farage, capace di volare al parlamento europeo con una pattuglia agguerrita di deputati pro Brexit ante litteram grazie ai successi elettorali del suo partito anti-Ue, l’Ukip. Bene, fu proprio per esorcizzare questa minaccia e per tranquillizzare gli elettori che Cameron promise l’indizione di un referendum per dare al popolo l’ultima parola sull’appartenenza a un club in cui lui e buona parte dell’establishment dei Tories (ma con un’altra parte schierata dalla parte opposta) credevano fermamente. Cameron vinse le elezioni ma perse clamorosamente il referendum: il successo, per quanto di stretta misura, dei pro Brexit lo indusse a dimettersi. Al suo posto salì allo scomodo scranno del potere Theresa May, già ministro del suo governo, e schierata con i Remain. «Brexit means Brexit», disse la nuova premier all’indomani del suo trasloco al numero 10 di Downing Street. Della serie: io ero contraria ma il popolo si è espresso inequivocabilmente e il partito conservatore provvederà ad eseguire quella volontà espressa nel referendum. Nel frattempo i laburisti hanno provveduto a spostare indietro le lancette della storia, rinnegando gli anni del blairismo scintillante ed eleggendo alla guida un estremista di sinistra come Jeremy Corbyn, con antipatiche venature antisemite. Morale della favola, la May ha indetto elezioni anticipate nel 2017 convinta di strappare una maggioranza netta di fatto facendo male i conti. Ma i conti più sbagliati riguardano la Brexit: è stata costretta ad andare col cappello in mano a Bruxelles per chiedere l’ennesima proroga e ora, se non troverà l’intesa per il 22 maggio, rischia di vedere i conservatori sparire, o quasi, alle paradossali elezioni europee. Non a caso il redivivo Nigel Farage si ripresenterà col suo Brexit Party destinato, secondo i sondaggi, a fare cappotto. «La Brexit, mai valutata fino in fondo da Cameron - ha scritto il Times - si è rivelata il risultato di una strategia pensata per salvare il partito conservatore da una minaccia minore. “Brexit vuol dire Brexit”, ci ha assicurato la signora May. L’incapacità di dare seguito all’esito del referendum è diventata una minaccia esistenziale per i Tories. Nessuno pensava che la Brexit significasse questo». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Marino Smiderle

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