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I TORMENTI DI MAY SULLA BREXIT

Un netturbino pulisce la strada più importante d’Inghilterra, Downing Street, dove al numero 10 risiede il primo ministro. Theresa May, attuale inquilino, rischia di vedersi presto sfrattare a causa dell’accordo sulla Brexit. AFP/BEN STANSALL Theresa May, primo ministro inglese in difficoltà. AFP/DANIEL LEAL-OLIVAS
Un netturbino pulisce la strada più importante d’Inghilterra, Downing Street, dove al numero 10 risiede il primo ministro. Theresa May, attuale inquilino, rischia di vedersi presto sfrattare a causa dell’accordo sulla Brexit. AFP/BEN STANSALL Theresa May, primo ministro inglese in difficoltà. AFP/DANIEL LEAL-OLIVAS
Un netturbino pulisce la strada più importante d’Inghilterra, Downing Street, dove al numero 10 risiede il primo ministro. Theresa May, attuale inquilino, rischia di vedersi presto sfrattare a causa dell’accordo sulla Brexit. AFP/BEN STANSALL Theresa May, primo ministro inglese in difficoltà. AFP/DANIEL LEAL-OLIVAS
Un netturbino pulisce la strada più importante d’Inghilterra, Downing Street, dove al numero 10 risiede il primo ministro. Theresa May, attuale inquilino, rischia di vedersi presto sfrattare a causa dell’accordo sulla Brexit. AFP/BEN STANSALL Theresa May, primo ministro inglese in difficoltà. AFP/DANIEL LEAL-OLIVAS

Meglio un non accordo che un cattivo accordo. Diceva così, Theresa May, un paio di mesi fa nel suo discorso pronunciato a Downing Street e diretto alla nazione. Parlava a nuora (la nazione) perché suocera (l’Unione europea) intendesse. Ora che l’accordo tra primo ministro britannico e Ue sulla Brexit è stato raggiunto, quelle parole le vengono rinfacciate dal fronte interno a colpi di dimissioni di ministri, di prese di posizione contrarie da parte di parlamentari conservatori e di aggressioni politiche senza precedenti. Tanto da parte di coloro che all’inizio si erano schierati dalla parte del Remain (di cui faceva parte la stessa May), tanto da parte dei più strenui sostenitori del Leave. Insomma, un disastro politico che dimostra ancor di più quanto sciagurata fu la decisione dell’allora premier David Cameron di organizzare il referendum più divisivo della storia britannica. La verità, e tutti lo sanno, è che senza un accordo il 29 marzo dell’anno prossimo, giorno fissato per l’uscita effettiva e definitiva della Gran Bretagna dall’Unione europea, le conseguenze potrebbero essere devastanti. La May ne è consapevole e, in un’intervista radiofonica, l’altro giorno ha reso l’idea di cosa potrebbe succedere facendo riferimento al suoi diabete e alle medicine che prende per affrontarlo: «Il farmaco a base di insulina che devo prendere ogni giorno - ha detto - viene prodotto in un Paese dell’Unione europea: se il 29 marzo non ci fosse un accordo...». Già, se non ci fosse un accordo qualcuno potrebbe pure rimetterci la pelle, avvertono con toni apocalittici i pochi convinti sostenitori del duro e sporco lavoro fatto finora dalla May. La quale, di fronte alle feroci proteste parlamentari, l’ha messa giù piana: «Possiamo decidere di divorziare dall’Ue senza un accordo, possiamo decidere di non uscire dall’Ue oppure possiamo uscire col miglior accordo possibile». Il punto è che May è sotto scacco da due punti di vista. Il primo, tutto interno al partito conservatore, riguarda il governo, che all’indomani dell’annuncio dell’accordo è andato in mille pezzi: tra gli altri si sono dimessi dall’esecutivo Dominic Raab, responsabile delle trattative per la Brexit, Esther McVey, ministra del Lavoro e Spailesh Vara, sottosegretario per l’Irlanda del Nord. Il succo delle critiche è: questa intesa è tutta a favore dell’Europa e lascia aperti i confini tra le due Irlande creando una discrepanza di trattamento inaccettabile per il Regno Unito. Su questo fronte la May ha, per ora, retto. Nel senso che ha subito provveduto ai rimpasti del caso, richiamando in sella la riabilitata Amber Rudd e nominando responsabile della Brexit lo sconosciuto, ai più, Steve Barclay, salvo ovviamente tenere per sé il grosso delle trattative sull’argomento. Ma è il secondo fronte che si annuncia molto più complicato. Sì, perché il fronte parlamentare, che dovrà esprimersi con un voto sulla bozza di accordo presentata dal primo ministro, è lacerato e ben difficilmente, stando alle dichiarazioni di questi giorni, potrà dare il via libera. Morale della favola, di fronte a un partito conservatore che rimprovera alla May di avere dato l’assenso a una bozza di accordo insostenibile (si manterrebbero alcuni vincoli imposti dall’Ue senza però più farne parte), la maggioranza a Westminster boccerebbe il tutto, catapultando di fatto il Paese verso elezioni che vedrebbero a quel punto favorito il Labour di Corbyn, un leader così a sinistra da costituire un mix esplosivo per le prospettive economiche dell’intera Gran Bretagna. Uscire dall’Ue proprio non conviene, questo adesso lo ammettono a denti stretti anche alcuni Brexiters della prima ora. «Oramai siamo un Paese spaccato – ha detto a Repubblica Jonathan Coe, lo scrittore che ha appena pubblicato Middle England, un romanzo che affonda le radici nel cambiamento sociale e politico della Gran Bretagna –. In tutta la mia vita non ho mai visto il mio Paese così instabile». Detto da chi ha raccontato nei suoi romanzi l’Inghilterra degli anni 70, della Thatcher e di Blair, c’è di che preoccuparsi. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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