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GUERRA INFINITA IN AFGHANISTAN

Un posto di blocco controllato da un militare afghano a Lashkargah, nella provincia di Helmand, dove un’auto bomba aveva provocato sei feriti. La situazione nel Paese è ancora molto difficile: talebani e Isis incombono. EPA/WATAN YARTre giovani guardano Kabul dall’alto di una collinetta
Un posto di blocco controllato da un militare afghano a Lashkargah, nella provincia di Helmand, dove un’auto bomba aveva provocato sei feriti. La situazione nel Paese è ancora molto difficile: talebani e Isis incombono. EPA/WATAN YARTre giovani guardano Kabul dall’alto di una collinetta
Un posto di blocco controllato da un militare afghano a Lashkargah, nella provincia di Helmand, dove un’auto bomba aveva provocato sei feriti. La situazione nel Paese è ancora molto difficile: talebani e Isis incombono. EPA/WATAN YARTre giovani guardano Kabul dall’alto di una collinetta
Un posto di blocco controllato da un militare afghano a Lashkargah, nella provincia di Helmand, dove un’auto bomba aveva provocato sei feriti. La situazione nel Paese è ancora molto difficile: talebani e Isis incombono. EPA/WATAN YARTre giovani guardano Kabul dall’alto di una collinetta

Neanche Donald Trump, che non è mai stato un sostenitore delle missioni militari all’estero degli Stati Uniti, riesce a mettere una pietra sopra la pietraia di morte dell’Afghanistan. «Finiremo quello che altri dovevano finire - ha detto il presidente americano riferendosi ai suoi due predecessori, George W. Bush, che diede il la alla guerra, e Barack Obama, che aveva come obiettivo il progressivo disimpegno -. Noi riusciremo a portare a termine quello che nessun altro è stato in grado di portare a termine». «Ma in una guerra che iniziò con qualche bombardamento aereo e alcune centinaia di missioni delle forze speciali nel 2001 - scrive il New York Times - e che negli anni ha visto fino a 100 mila soldati americani schierati sul campo, queste promesse ricordano quelle già sentite troppe volte negli anni passati». Già, neanche Trump riesce a uscire da una trappola che storicamente ha visto tante potenze straniere (ultima in ordine di tempo prima degli Usa: l’Unione Sovietica) uscire malconce e sconfitte. Per far fronte all’offensiva disgiunta ma letale dei talebani e dei militanti dell’Isis, ora privi di un’istituzione statale qual era il Califfato costituito tra Iraq e Siria, il Pentagono ha previsto di portare a 15 mila gli effettivi militari presenti in Afghanistan. Di questi, 4.000 rientrano nella nuova strategia di Trump per respingere l'ennesima offensiva delle forze del terrore. «Guardando al 2018 - aveva detto il generale John Nicholson, ripreso dal New York Times, alla fine di novembre del 2017 ai giornalisti che seguono le vicende del Pentagono - come ha detto il presidente afghano Ghani, possiamo dire di aver ormai svoltato. Ora ve forze di sicurezza afghane sono in grado di gestire bene la situazione». Nelle ultime settimane tre soli attacchi hanno provocato 128 morti, in gran parte civili, solo nella capitale Kabul. E diventa stucchevole ricordare tutte le dichiarazioni di ottimismo che i diversi comandanti militari americani in Afghanistan hanno diffuso agli organi di stampa. Nel 2003, come ricorda sempre il New York Times, l’allora segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, ebbe l’ardire di sostenere che la guerra fosse ormai finita. «Siamo arrivati a un punto - disse - che segna il passaggio dall’attività militare di combattimento alla stabilizzazione politica e all’attività di ricostruzione». Certo, avremmo presto visto le dita sporche d’inchiostro viola degli afghani che, per la prima volta, sperimentavano l’ebbrezza di una democrazia che l’Occidente pensava diventasse la soluzione per la pace dell’Afghanistan. Sappiamo, purtroppo, come si sono infranti i sogni di esportazione della democrazia che permeavano l’ideologia neoconservatrice di Bush e C. A distanza di anni pochi ricordano che l’attacco all’Afghanistan fu approvato dalla Nato di fronte alla richiesta degli Stati Uniti, colpiti al cuore dai terroristi di bin Laden l’11 settembre 2001, di far scattare l’articolo 5 del trattato, cioè quello che impone agli stati membri di andare in soccorso dell’alleato colpito. Di quelle condizioni non c’è più memoria. Restano, invece, le perenni dichiarazioni di ottimismo seguite da rovesci devastanti che minano ogni buona intenzione. Ora i talebani da una parte e i miliziani dell’Isis dall’altra rendono la vita impossibile a chi abita a Kabul e nelle altre città del Paese. Certo, la scelta di Obama di ridurre l’impegno di truppe in Afghanistan e in Iraq non ha dato i frutti sperati. «È tempo di voltare pagina dopo oltre un decennio in cui gran parte della nostra politica estera è stata focalizzata sulle guerre in Iraq e in Afghanistan», disse nel maggio del 2014. L’anno successivo questo progressivo disimpegno certo non dispiacque al Califfo e all’Isis, capaci di arrivare fino alle porte di Baghdad per far sventolare la bandiera nera del terrore nel nuovo Stato islamico. Ora quell’entità è stata divelta ma in Afghanistan si intravedono capitoli di storie già viste e che nessuno sa, parole a parte, come scrivere in modo diverso. Il lieto fine di cui tutti parlano da oltre 16 anni resta un desiderio irrealizzabile. Anche per Trump. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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