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GOOD MORNING, AFGHANISTAN

Un Humwee militare lungo la strada che collega Kabul a Wardak. La decisione di Donald Trump di proseguire nelle trattative con i talebani in vista di un possibile ritiro delle truppe americane suscita preoccupazione. EPA/JAWAD JALALIControlli delle forze di sicurezza afghane a Helmand. EPA/WATAN YAR
Un Humwee militare lungo la strada che collega Kabul a Wardak. La decisione di Donald Trump di proseguire nelle trattative con i talebani in vista di un possibile ritiro delle truppe americane suscita preoccupazione. EPA/JAWAD JALALIControlli delle forze di sicurezza afghane a Helmand. EPA/WATAN YAR
Un Humwee militare lungo la strada che collega Kabul a Wardak. La decisione di Donald Trump di proseguire nelle trattative con i talebani in vista di un possibile ritiro delle truppe americane suscita preoccupazione. EPA/JAWAD JALALIControlli delle forze di sicurezza afghane a Helmand. EPA/WATAN YAR
Un Humwee militare lungo la strada che collega Kabul a Wardak. La decisione di Donald Trump di proseguire nelle trattative con i talebani in vista di un possibile ritiro delle truppe americane suscita preoccupazione. EPA/JAWAD JALALIControlli delle forze di sicurezza afghane a Helmand. EPA/WATAN YAR

La storia in Afghanistan corre in circolo. Si ripete immutabile ma con gli occhiali dell’osservatore occidentale si fa fatica a capirla. O, forse, si fa finta di non capirla. La guerra più lunga (17 anni) e più costosa combattuta dagli Stati Uniti alla fine è finita più o meno allo stesso modo di come era andata ai sovietici nei dieci anni di occupazione dal 1979 al 1989: con una sconfitta spacciata per uscita di scena volontaria. Il ritiro delle truppe russe spalancò le porte, in seguito alle divisioni laceranti dei diversi gruppi di mujaheddin, all’avvento del regime sanguinario dei talebani. A trent’anni di distanza, e dopo averli combattuti strenuamente, con l’appoggio di larghi strati della popolazione, ora l’inviato Usa Zalmay Khalilzad ha annunciato che l’accordo con gli ormai ex nemici è vicino. La notizia, in sé, potrebbe suonare positiva. Verrebbe da dire che Donald Trump sta per riuscire nell’impresa che Barack Obama aveva solo annunciato: mettere fine alla guerra che è costata allo zio Sam la vita di circa settemila soldati statunitensi, nel massacro generale la cui contabilità è arrivata a quota mezzo milione di vittime. Una guerra che potremmo definire “giusta”, almeno a giudicare dal via libera di tutti i Paesi della Nato, solidali con l’alleato americano colpito al cuore in quel tragico 11 settembre 2001. E a Doha, in Qatar, i talebani a colloquio con l’inviato Usa Zalmay Khalilzad si sono impegnati a non fare del Paese la base di gruppi terroristici come Al Qaeda o quel resta dell’Isis. «Ma ci sono altre due condizioni - scrive Claudio Salvalaggio dell’Ansa - poste dagli Stati Uniti per lasciare completamente il Paese dove hanno 14 mila soldati che a dicembre Trump ha già detto di voler dimezzare: il cessate il fuoco e colloqui diretti con il governo di Kabul. Due punti su cui la delegazione dei talebani ha chiesto tempo per discutere con la sua leadership, che finora si è sempre opposta fermamente a queste concessioni». La verità che tutti sanno è che i talebani non hanno alcuna intenzione di mettersi a parlare con un governo, quello adesso guidato da Ashraf Ghani, che considerano traditore e venduto agli americani. Sappiamo come è andata a Najibullah, presidente dell’Afghanistan lasciato in eredità dai sovietici: nel 1996 i talebani del mullah Omar, ormai padroni oscurantisti del Paese, lo condannarono a morte e lo impiccarono. Memore di quel precedente, il presidente attuale dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, ha offerto a Donald Trump una sensibile riduzione dei costi purché mantenga le truppe statunitensi nel paese. Per il New York Times, la proposta testimonia chiaramente la preoccupazione di Ghani per un possibile ritiro degli Stati Uniti. Dal Good Morning, Vietnam che gorgheggiava fuori dalle radio di Saigon al Good Morning, Afghanistan di Kabul il passo sembra molto più breve di quei 50 e passa anni che sono passati ma tragicamente simile nell’esito finale. Il Pentagono non ha gradito la scelta di Trump di accelerare l’uscita di scena e i militari sanno molto bene che dei talebani c’è poco da fidarsi. L’estremismo islamico di questi invasati è particolarmente temuto dalle donne che, durante la presenza americana, esibivano fiere le dita sporche d’inchiostro viola dopo aver votato alle elezioni democratiche e che in futuro temono di dover tornare al medioevo di questi pericolosi e violenti oscurantisti. Quella missione e quella successiva in Iraq furono ammantate dai neo conservatori di George Bush come l’inizio di una nuova strategia, non più imperniata sul realismo ma sull’idealismo: cioè, non più guerre dettate dagli interessi di corto e inconfessabile respiro, ma con l’obiettivo di esportare la democrazia, alla lunga il vero interesse degli Stati Uniti e dell’Occidente. Peccato che Trump da quest’orecchio non ci senta proprio. E sono anche i curdi a pagare dazio, gli iracheni, oltre che il popolo afghano. Non un bel biglietto da visita per gli americani e un avvertimento per futuri Paesi interessati a essere “salvati”. Il Venezuela avrà preso nota. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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