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DAL RIFORMISMO ALL’OMICIDIO

La bandiera araba sventola sugli edfici del consolato saudita a Istanbul, dove il giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi, sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi per le critiche espresse nei confronti del principe Mohamed bin Salman«LIberate Khashoggi». Proteste davanti al consolato. EPA/SEDAT SUNA
La bandiera araba sventola sugli edfici del consolato saudita a Istanbul, dove il giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi, sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi per le critiche espresse nei confronti del principe Mohamed bin Salman«LIberate Khashoggi». Proteste davanti al consolato. EPA/SEDAT SUNA
La bandiera araba sventola sugli edfici del consolato saudita a Istanbul, dove il giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi, sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi per le critiche espresse nei confronti del principe Mohamed bin Salman«LIberate Khashoggi». Proteste davanti al consolato. EPA/SEDAT SUNA
La bandiera araba sventola sugli edfici del consolato saudita a Istanbul, dove il giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi, sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi per le critiche espresse nei confronti del principe Mohamed bin Salman«LIberate Khashoggi». Proteste davanti al consolato. EPA/SEDAT SUNA

Mohammed bin Salman si era presentato come colui che voleva riformare l’Arabia Saudita. Magari con un rivoluzionario passo indietro dell’Islam nella gestione della vita pubblica e con una diversificazione dell’economia da decenni dipendente esclusivamente dal petrolio. Una politica apprezzata e auspicata dagli alleati occidentali, Stati Uniti in testa, che avevano deciso di chiudere un occhio sul modo brutale con cui il principe si era sbarazzato degli oppositori interni alla casa reale. La Realpolitik imponeva, secondo un ragionamento un po’ miope, di ingoiare un rospo oggi per vedere sfavillare l’Arabia nuova domani. Ma il 2 ottobre a Istanbul è successa una cosa che potrebbe mettere in discussione tutto. Il futuro dell’Arabia e delle sue alleanze, da un lato, e l’equilibrio geopolitico in quel ginepraio storico che prospera in Medio Oriente dall’altro. Sì, perché ammazzare un giornalista del Washington Post all’interno di un proprio consolato e pensare che nel mondo nessuno alzi un sopracciglio per timore di perdere il petrolio saudita, è una forzatura anche per lo scafato cinismo che regola le diplomazie del pianeta. Jamal Khashoggi, questo il nome dell’editorialista del Washington Post scomparso, aveva preso appuntamento con il consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul per ritirare alcuni documenti necessari per celebrare il proprio matrimonio con la compagna turca, Hatice Cengiz. Mentre lui entrava nell’edificio, ripreso dalle telecamere all’esterno, lei rimaneva fuori in fiduciosa attesa. Il giornalista arabo, ma in auto-esilio negli Stati Uniti, sapeva benissimo che Riad non aveva gradito i suoi articoli, critici nei confronti dell’emergente principe riformista. Ma pensava che, per avere i documenti necessari al matrimonio, fosse sufficiente schivare l’Arabia per evitare rischi di ritorsione. Aveva fatto male i suoi conti. La macchina burocratica e diplomatica aveva annotato questa richiesta e l’aveva girata ai vertici in patria. Morale della favola, come è emerso dalla prove fornite dai servizi turchi alla stampa internazionale, proprio in quel giorno dall’Arabia si è alzato in volo un executive con a bordo una squadra di professionisti incaricata di chiudere la questione Khashoggi, sopprimendo nel sangue la voce critica che si alzava dalle colonne del Washington Post, il giornale che nei giorni successivi alla scomparsa ha pubblicato due colonne bianche nello spazio che avrebbe dovuto essere occupato da un articolo dell’editorialista. Abdulaziz bin Saud bin Naif bin Abdulaziz, ministro dell’Interno saudita, ha bollato come «menzogne e accuse senza fondamento» le versioni pubblicate dai media internazionali, sostenendo che Khashoggi se ne sarebbe andato dal consolato con le proprie gambe pochi minuti dopo il suo ingresso. In realtà questa smentita non è stata minimamente suffragata da prove. Che invece, grazie all’incredibile solerzia dei servizi di Recep Tayyip Erdogan, dimostrerebbero in maniera praticamente inequivocabile come il giornalista sia stato ucciso, fatto a pezzi e portato fuori dal consolato. La reazione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è stata un capolavoro di equilibrismo. Da un lato ha promesso una punizione severa nei confronti dell’Arabia qualora fosse ritenuta responsabile; dall’altro si è rifiutato di mettere in discussione le forniture militari, il cui valore si aggira sui 100 miliardi di dollari, già firmate dalle controparti americane. Il business viene prima dei diritti umani, par di capire. Dal canto suo la posizione di Erdogan sembra la chiave di volta della vicenda. Tutto quello che sappiamo di questa vicenda, comprese addirittura le prove video o audio che i servizi di Istanbul sostengono essere a disposizione, lo dobbiamo alla solerzia distributiva dei solitamente parchi di informazioni servizi segreti turchi. E siccome non si muove foglia senza che Erdogan non voglia, si capisce come il sultano voglia giocarsi il rapporto con Riad: se gli daranno soldi per puntellare l’economia la questione sarà presto chiusa; in caso contrario, addio Riad. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

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