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Rubbio, il sogno
a colori

L’idea del bassanese ha portato fino ad oggi 400 mila visitatori a Conco in un luogo scavato dall’uomo: «La Natura un giorno se lo riprenderà»
I volti stilizzati  di Zarpellon che hanno trasformato la pietra in soggetti parlanti. FOTOSERVIZIO CECCONSono tre le aree della cava di Rubbio, una arredata di marmitte Una  manifestazione teatrale che ha riempito la cava di ragazzini
I volti stilizzati di Zarpellon che hanno trasformato la pietra in soggetti parlanti. FOTOSERVIZIO CECCONSono tre le aree della cava di Rubbio, una arredata di marmitte Una manifestazione teatrale che ha riempito la cava di ragazzini
I volti stilizzati  di Zarpellon che hanno trasformato la pietra in soggetti parlanti. FOTOSERVIZIO CECCONSono tre le aree della cava di Rubbio, una arredata di marmitte Una  manifestazione teatrale che ha riempito la cava di ragazzini
I volti stilizzati di Zarpellon che hanno trasformato la pietra in soggetti parlanti. FOTOSERVIZIO CECCONSono tre le aree della cava di Rubbio, una arredata di marmitte Una manifestazione teatrale che ha riempito la cava di ragazzini

Lorenzo Parolin

Per raggiungerlo bisogna salire tra le colline di Marostica. La strada che diventa una mulattiera, alcune curve sullo sterrato, un rustico rimesso in ordine tra murales, centinaia di libri e installazioni. Qui vive Toni Zarpellon, 73 anni, già insegnante di scuola superiore, pittore e scultore da mezzo secolo, con esposizioni in un'area che va dalla Francia alla Polonia, passando per il Quirinale. «Quando sono al lavoro – dice - mi ritiro qui: la natura, i miei colori, i libri. Trovo lo spazio e il tempo giusti”. Già, il tempo: il 2015 gli porta le nozze d’argento con il suo lavoro più celebre. Le Cave di Rubbio di Conco dal 1990 sono un esempio di land-art con quattro anfiteatri rocciosi di pietra calcarea, divenuti richiamo per oltre 400 mila visitatori. Le Cave hanno ospitato concerti, teatro per ragazzi, esposizioni ed incontri. Nel 1989 nacque la Cava Dipinta, con volti umani e animali stilizzati; nel 1991 si aprì la Cava Abitata dove vennero inseriti serbatoi e marmitte di automobili; alla fine degli anni Novanta si aggiunse la Cava Laboratorio, dove ogni visitatore può diventare lasciare il suo segno.

Un quarto di secolo: quando ha concepito l’idea se lo aspettava di superare ampiamente il Duemila?

No, perché ero un quarto di secolo più giovane, più entusiasta e meno saggio. Cercavo un luogo nel quale far convivere i miei colori e uno spazio ampio per dare respiro al pubblico. L’ho trovato in alto, in una frazione di montagna della mia Bassano. Da lì è partita un’avventura che è arrivata alla piena maturità. Adesso bisogna pensare al dopo.

Nel senso che vuole farne un museo?

Per carità! Ho lottato tutta la mia vita contro quest’idea dell’arte da inscatolare e chiudere in luoghi asettici. No, no, la cava è qualcosa di vivo. Mica per la pietra: per il lavoro continuo di manutenzione, per il rapporto con i visitatori, per quello che mi scrivono. Sapete quanti quaderni ho raccolto in questi venticinque anni?.

Che cosa le scrivono?

Complimenti, critiche, qualche analisi di taglio accademico. Più di tutto, però, mi interessano le frasi che raccontano le emozioni di chi si è fatto un pezzo di montagna per venire a trovarmi. Qualcuno ha scritto che neppure a Parigi ha visto qualcosa di simile, altri elogiano il luogo. Tra le frasi più recenti c’è “L’uomo e la Natura possono diventare amici? Tu mi fai intravvedere una possibilità”. Mi piace molto.

E non vuole più raccoglierle?

Certo, ma gli anni avanzano anche per me e salire a Rubbio per le incombenze legate alla cava è sempre più impegnativo. E, poi, la Natura mi ha dato in prestito un suo spazio, per un tempo lungo, la Natura, un giorno, verrà a riprenderselo, con calma, come lei sa fare. L’ho detto che l’arte in scatola non mi interessa.

La parola “Natura” è sempre presente nei suoi discorsi. Da dove nasce questa attenzione?

È biografia, sono le centinaia di chilometri che ho percorso a piedi, su e giù per le nostre colline e montagne. L’auto, il consumismo, la tecnologia esasperata già negli anni ’60 mi avevano stancato. Adesso ne parlano anche Obama e Papa Francesco ma hai voglia! Noi ce n’eravamo accorti mezzo secolo fa, e per darmi una risposta mi misi in cammino. Cercavo il mio posto.

L’ha trovato?

(Ride) Direi di sì, non ti pare? Questo mio rifugio, me lo sono messo in ordine con le mie mani. Qui ho tutto quello che mi serve: il verde delle colline, la legna da spaccare ogni giorno, l’orto, niente tivù, colori e tele e le mie “modelle”, alcune mucche che brucano in zona.

Sembra una dimensione da artigiano del passato…

Lo è, e oggi ce ne siamo dimenticati. Puntiamo tutto sulle sensazioni visive: il cinema, la televisione, se va bene la fotografia. E le mani? E il corpo? Il fatto è che non ci curiamo più dell’anima delle cose. Tutto in serie, tutto è spettacolo, e poi finisce in discarica. Non mi piace: voglio metterci un po’ di fatica in ciò che faccio, guardarmi attorno e sentire gli oggetti che ho in casa come parte della mia vita.

Dopo mezzo secolo di strada nell’arte, è ottimista o pessimista?

Se dovessi giudicare dai vandali che mi visitano la cava… sporcano e buttano giù i segnali, ma che gusto ci provano? Da vecchio artigiano che crede nelle possibilità dell’uomo, però, guardo con fiducia al futuro. In fondo basta che torniamo a sentirci parte di una rete, la Natura, più ampia e più importante di noi”.

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