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Il Cenacolo
ospedaliero

Filippo De Pisis, Natura morta con tarocchi, 1926, Museci civici di Vicenza, lascito  Pozza-Quaretti Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Filippo De Pisis, Natura morta con tarocchi, 1926, Museci civici di Vicenza, lascito Pozza-Quaretti Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Filippo De Pisis, Natura morta con tarocchi, 1926, Museci civici di Vicenza, lascito  Pozza-Quaretti Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917
Filippo De Pisis, Natura morta con tarocchi, 1926, Museci civici di Vicenza, lascito Pozza-Quaretti Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, 1917

Le medesime persone che sostengono che siamo noi gli artefici del nostro destino dovrebbero spiegare come, nei giorni d’inizio estate del 1915, provenienti da Parigi, Giorgio De Chirico e il fratello Andrea - già da un anno con lo pseudonimo di Alberto Savinio – abbiano potuto farsi arruolare a Ferrara, entrambi nel 27° reggimento di fanteria. Una città il cui fascino e la cui struttura ossea si rivelerà per De Chirico una preziosa mappa visiva, all’interno della quale orientare la propria ricerca artistica, sino a raggiungere i vertici della pittura metafisica, dopo averla portata ad un eccellente punto di maturazione nella capitale francese a cominciare dal 1911. Ma oramai lontane sembrano qui le silenziose piazze, edificate nella mente del pittore e abitate da statue il cui biancore proiettava lunghe ombre evocatrici di un passato rivisitato con letteraria nostalgia. Non meno incatato dal potere evocativo di quel luogo, risultò Savinio, che in quel periodo aveva deciso di abbandonare la musica per tradurre i suoi stati d’animo in parole, divenendo scrittore.

Spiegherà: «Nelle vetrine dei pasticceri s’ergono immense piramidi i dolci neri bizzarrissimi che mai nessun vivente mangiò né mangerà. Tagliati, essi presentano la complicata anatomia mineralogica delle loro interiora. (…) Quei dolci metallici, compatti più dei libri di Balzac, non sono destinati ai mortali. Colui che morde quei dolci fatalissimi, assapora l’eternità».

Pensieri pressoché sovrapponibili con quelli scritti da De Chirico: «L’aspetto di Ferrara, una delle più belle città d’Italia, mi aveva colpito; ma quello che mi colpì soprattutto e mi ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora, erano certi aspetti di interni ferraresi, certe vetrine, certe botteghe, certe abitazioni, certi quartieri, come l’antico ghetto ove si trovavano dei dolci e dei biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane». Oggetti che dalle vetrine entreranno con fedeltà visiva all’interno della composizione, scollegati però dal contesto circostante, in modo da creare un desiderato senso di spaesamento.

Convinto sostenitore degli enigmi insondabili dell’esistenza, perlustrati con finezza di pensiero e spiccata ironia, attraverso percorsi esoterici e dottrine cabalistiche, De Chirico a più riprese sottolineerà il ruolo fondamentale giocato in quel decisivo momento dalla sorte. A Paul Guillame, suo mercante parigino, dirà: «Per quanto mi riguarda sono abbastanza felice in questa bella e malinconica Ferrara, dove mi ha condotto la fatalità della vita (…) e io sento ora che la mia partenza da Parigi, l’allontanamento dall’ambiente in cui vivevo, e l’apparizione di questa città fatale in cui mi trovo, sono altrettante cose fatalmente necessarie al mio io creatore». Questo poteva affermarlo poiché, nel frattempo, il fato aveva prodotto per suo conto un’altra, da lui non citata, circostanza favorevole: la possibilità di sottrarsi agli obblighi più cruenti della guerra, svolgendo in un primo tempo mansioni di ufficio e poi, dal 1917, di disporre di un piccolo atelier all’interno di Villa del Seminario, adibita a ospedale psichiatrico per la cura delle nevrosi di guerra: ospedale impostato sul recupero delle attività personali. Vi aveva trovato ricovero grazie alla benevolenza del maggiore medico Gaetano Boschi. Se poi aggiungiamo che uno dei duecento posti letto di Villa del Seminario (subito ribattezzata da De Chirico, Villa degli enigmi) in quella stessa primavera del 1917 fu destinato a Carlo Carrà, proveniente dal distacco di Pieve di Cento; o, ancora, che nel precedente periodo ferrarese i fratelli De Chirico trovarono alloggio proprio di fronte a palazzo Calcagnini, in via Montebello, nelle cui sale risiedeva Filippo De Pisis, ci accorgiamo che il destino è stato in questo caso scritto altrove. Ricorda a questo proposito De Pisis: «Per caso strano vennero proprio ad abitare in una casa in faccia al palazzone austero dove io passavo i miei giorni. Ci conoscemmo (…). Tra noi c’erano curiose identità di ricerche e anche di scoperte». Un susseguirsi di coincidenze, dunque, in grado di aggiungere mistero a ciò che la pittura Metafisica andava esprimendo.

E’ ancora De Chirico (1888-1978) a ricordare: «Con Carrà ci trovammo in una specie di ospedale o piuttosto convalescenziario dove in una cameretta io mi misi a lavorare un po’. Lui si rimise a fare le stesse cose che facevo io…». Un rilievo sferzante nei confronti di Carrà, mutato dallo sguardo successivo. In precedenza però in una lettera del 1918, allo stesso Carrà aveva scritto: «Siamo i nuovi Vespucci, i nuovi Colombo. Portiamo in noi le tristezze e le speranze delle spedizioni lontane». Quello che è certo è che uno accanto all’altro dipinsero una serie di capolavori. De Chirico: Ettore e Andromaca, Le muse inquietanti, Il trovatore o Il grande metafisico, per citarne alcuni. Lo stesso fu per Carlo Carrà (1881-1966), con Madre e figlio, Il dio ermafrodito (proprio un anno prima Savinio inizia a pubblicare a puntate i primi capitoli dell’ Hermaphrodito), l’ Ovale delle apparizioni o Il figlio del costruttore.

Occasione straordinaria per vedere riunite un numero rilevantissimo di opere dipinte dai due artisti durante questa stagione irripetibile (De Chirico vi rimarrà poco più di tre anni, un anno Carrà) arriva da Ferrara, nella sede di Palazzo dei Diamanti, grazie ad una mostra impeccabile per rigore scientifico e per qualità di percorso. Voluta da Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie Civiche ferraresi e affidata alla provata competenza di Paolo Baldacci e Gerd Roose. La rassegna (aperta sino al 28 febbraio e accompagnata da un catalogo edito da FerraraArte) dà testimonianza di quanto la Metafisica riuscì a influenzare dadaisti e surrealisti (oltre alla Nuova Oggettività tedesca): Ernst, Dalì, Man Ray, Magritte. Risulterà assente, in De Chirico, il desiderio di oltrepassare la soglia in direzione dell’inconscio così da far riaffiorare il passato attraverso una diffusa e malinconica nostalgia.

Capitolo breve, ma emozionante è quello dedicato a Giorgio Morandi e a Filippo De Pisis. Il primo è presente con due Nature morte, una del 1918 e una del 1920, e con la celebre Natura morta con manichino del 1919, quadri nei quali il pittore bolognese delinea le forme in modo da produrre, grazie anche ad una calibrata scansione timbrica, un perfetto equilibrio compositivo.

Di De Pisis, accanto ai Pesci sacri del 1925 è presente Natura morta con tarocchi del 1926. In questa piccola tela compaiono una serie di collegamenti diretti con la Metafisica: il gioco illusionistico del quadro nel quadro, l’“occhio”per simboleggiare ciò che appare in forma di rivelazione, la prospettiva vertiginosa del tavolo. Ma in primo piano vi è anche una piuma ad annunciare la sua pittura futura. Un quadro bellissimo, scelto per arricchire questa mostra e proveniente dai Musei Civici di Vicenza. Giunto al Chiericati grazie al lascito Neri Pozza, la tela, dopo 28 anni, dovrebbe presto lasciare i depositi e trovare finalmente una giusta collocazione al termine del restauro dell’ala novecentesca del palazzo. Si vede che questo era il suo destino.

Silvio Lacasella

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