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Viva Poroshenko,
«il Trovatore»

(...) Cerchi di comprendere: l’emozione di averla per le mani è troppa. E del resto, scusi, ha idea di quale fine avrebbe potuto fare se io non mi fossi messo in contatto con lei? Perciò porti pazienza e vada a piedi. Ci risentiamo a estate inoltrata».

Supponete che un istante dopo il proprietario della i8 chiederebbe ai carabinieri di venire ad arrestare sia me che mio figlio? No davvero, vi sbagliate. Siccome è persona di buon cuore, mi recapiterebbe a casa 12 bottiglie di Amarone, accompagnate da un attestato di lode per le mie preclare virtù civiche.

Ecco, Petro Poroshenko, presidente dell’Ucraina, sta trattando come la i8 quei 17 capolavori (Tintoretto padre e figlio, Mantegna, Pisanello, Bellini, Caroto, Rubens, Benini, de Jode) trafugati il 19 novembre dal Museo di Castelvecchio e ritrovati il 6 maggio sull’isola di Turunciuk dalla polizia di frontiera dell’ex repubblica sovietica, peraltro instradata sulla pista giusta dalla Procura di Verona. Invece di affrettarsi a restituire il maltolto, fra l’altro bisognoso di restauro per le ingiurie subite, ha trasformato la pinacoteca ambulante (valore 20 milioni di euro) nella sua collezione privata.

Rivediamo in sequenza l’imbarazzante farsa. Scena prima. Solo a sei giorni dal ritrovamento, Poroshenko si degna di divulgare la notizia. Bisogna capirlo: doveva aspettare che venissero approntati i cavalletti sui quali issare i trofei e che fosse precettato il formidabile squadrone - generale pluridecorato, soldati in assetto di guerra, accigliati funzionari - prescelto per posare al suo fianco in estatica adorazione dei dipinti.

Scena seconda. Paola Marini, oggi direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, vola a Kiev ma è costretta ad aspettare tre giorni in albergo prima che Poroshenko si decida a firmare il nullaosta che la autorizza a eseguire la perizia sui quadri, disposta dal pm Gennaro Ottaviano. Un gesto di scortesia particolarmente odioso, non solo perché colpisce una gentildonna, costretta a cancellare il volo di rientro già prenotato e a trovarsene un altro, ma anche per il fatto che le tele furono sottratte mentre lei riceveva il premio 12 Apostoli. Poverina, si sente ancora in colpa per quella malaugurata coincidenza, quasi che la razzia si fosse potuta evitare se solo avesse presidiato il proprio ufficio oltre l’orario di chiusura anziché intrattenersi piacevolmente a cena nel ristorante di Giorgio e Antonio Gioco.

Scena terza. Capìta l’antifona (coi màti no’ gh’è pàti, recita un adagio popolare), il sindaco di Verona, Flavio Tosi, decide che conviene scendere a patti con lo stravagante detentore delle pitture. Quindi delibera di conferire la cittadinanza onoraria al presidente dell’Ucraina e, nel contempo, di concedere l’indulgenza plenaria ai sudditi del medesimo, che potranno visitare gratis sino alla fine del 2016 tutti i musei veronesi.

Scena quarta. Il primo cittadino è costretto a recarsi a Kiev per consegnare la pergamena a Poroshenko: forse il municipio era una cornice poco consona a un capo di Stato così corrusco. Approfittando della festosa circostanza, Tosi cerca di strappargli una data per il ritorno in patria del malloppo. Ma l’oligarca ha pensato bene d’imbastirci una mostra al Bohdan e Varvara Khanenko national museum of arts: mica gli si può negare un giretto sulla i8, giusto? Nel logo dell’esposizione, che dovrebbe chiudersi il 22 giugno, figurano cinque stemmi ma non quello del Comune di Verona, proprietario dei quadri: altro gesto di rara sensibilità. Considerato il costo iperbolico del biglietto d’ingresso - 70 dollari, più di un terzo dello stipendio medio mensile di un ucraino - non escluderei che la lucrosa rassegna possa essere prolungata a grande richiesta. «L’operazione dovrebbe concludersi nell’arco di qualche settimana», mette le mani avanti il sindaco.

Scena quinta. Il rabdomantico presidente dell’Ucraina viene invitato da Tosi ad assistere con tutti gli onori a un’opera in Arena. Il Trovatore, presumo. Quando la sua agenda fitta d’impegni sarà meno ingombra, si compiacerà di accettare e nell’occasione riporterà in riva all’Adige i tesori di Castelvecchio, non si sa se con un aereo di Stato ucraino o italiano (pare che ci sia in ballo pure il pagamento del volo di ritorno delle opere rapite). Poiché da Roma fanno sapere che vorrebbe presenziare al fausto evento il ministro dei Beni culturali, se non addirittura il presidente del Consiglio, v’è d’augurarsi che la triangolazione Poroshenko-Franceschini-Renzi non sia foriera di ulteriori intoppi sul calendario.

E ora due paroline sul nuovo cittadino onorario di Verona, che con «le spalle massicce, i lineamenti gotici e quella sua aria da predatore in agguato» (la poco rassicurante descrizione è di un ardente sostenitore, il filosofo francese Bernard-Henri Lévy), rende plausibile la prudentissima diplomazia del sindaco. A giustificare la quale, per di più, vi è un increscioso precedente di recidività, richiamato dallo stesso Tosi: «Importanti opere d’arte rubate in Olanda sono state ritrovate a Kiev dopo anni e anni dall’esecuzione del furto, e hanno impiegato altri anni per tornare in patria». Traduzione: e chi sono io, mira, mira l’olandesina, per rischiare una simile figuraccia? Peccato che nel sito ufficiale dell’ambasciata d’Ucraina in Italia non vi sia traccia della vicenda scaligera. La pagina sulla «cooperazione culturale» fra i due Paesi riporta solo un accordo bilaterale siglato nel 1997, il cui evento più recente è «la presentazione del libro del Membro straniero dell’Accademia Nazionale delle Scienze d’Ucraina, economista rinomato, scienziato Bohdan Hawrylyshyn», risalente al maggio di sei anni fa.

Tenuto nel debito conto che il concittadino d’importazione ha il coltello dalla parte del manico, vale ugualmente la pena di porsi la domanda delle cento pistole, come la chiamava Sandro Paternostro: comprereste un’auto usata da Poroshenko? Interpellati ad aprile dal Rating sociological service, organizzazione americana legata al Partito repubblicano, tre su quattro dei suoi compatrioti hanno risposto no.

Il prefisso bisillabo del cognome non deve trarre in inganno: Poroshenko è tutt’altro che un pòro càn. Con un patrimonio personale che al momento dell’elezione veniva stimato in 1,6 miliardi di dollari, padrone di una galassia che spazia dal cioccolato ai cantieri navali, dalle fabbriche di auto e bus alla tv Kanal 5, il leader ucraino non sembra vantare trascorsi acconci alla commenda che gli è stata accordata. Quand’era presidente della commissione bilancio, lo accusarono di un’evasione fiscale da record (9 milioni di dollari). Il suo nome è comparso nei cosiddetti «Panama papers», i documenti del più grande scandalo finanziario della storia, che vede coinvolti re, statisti, multimiliardari e calciatori, tutti clienti dello studio legale Mossack Fonseca, per frodi fiscali. Molto chiacchierato anche il suo rapporto con Viktor Pinchuk, un magnate al quale avrebbe consentito di rilevare per appena 80 milioni di dollari uno stabilimento siderurgico che invece valeva 1 miliardo.

Poi andrebbero valutati gli aspetti politici. Qui tenderei a fidarmi di Franco Venturini, che negli ultimi 30 anni ha seguito per il Corriere della Sera prima l’Urss e poi ciò che resta dell’ex impero sovietico. Nel recente conflitto con la Russia, osserva il giornalista, all’esercito di Poroshenko l’Occidente condonava tutto, «anche il fuoco di artiglieria contro i centri abitati del Donbass».

Gli ultimi avvenimenti ucraini messi in fila da Venturini sono raggelanti. Il ministro dell’Economia, Abromavicius, si è dimesso perché la corruzione imperante impediva qualsiasi riforma; il procuratore generale, Chokin, si è dimesso perché accusato di proteggere furfanti e oligarchi; il primo ministro, Yatsenyuk, si è dimesso perché era assediato da affaristi, magistrati a libro paga «e ancora oligarchi, sottinteso come il presidente Poroshenko».

Ci sarebbe infine qualcosa da ridire su come Poroshenko tratta i giornalisti. Ma qui mi taccio, anche perché, a sentire Francesco Battistini, un altro inviato speciale del Corriere che si è trovato spesso a lavorare da quelle parti, un sito vicino al governo ucraino ha hackerato per tre volte gli elenchi dei 7.000 giornalisti di tutto il mondo che si sono recati nelle regioni dell’ex Urss per seguirvi gli eventi bellici. Titolo dell’allegra pubblicazione: «Canaglie». L’anno scorso, lo stesso sito web additò al pubblico ludibrio un paio di cronisti: due giorni dopo furono ritrovati morti.

Comunque, appresa la notizia che uno degli arrestati per il colpo di Castelvecchio è già uscito di galera e prosegue comodamente la detenzione a casa propria, mi permetto di rivolgere un amichevole appello ai ladri dell’Est: tornate a Verona, magari con la i8. È tutto perdonato.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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