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Uno scolapasta
ci seppellirà

(...) è tutta qui. Noi marciavamo contro gli stragisti rossi e neri che volevano abbattere lo Stato a colpi di bombe, omicidi, sequestri di persona e azzoppamenti. Loro, a parte sporadiche eccezioni, non muovono un dito contro i correligionari impegnati nella jihad, quasi che la guerra santa non li disgustasse. Ma allora che razza di cittadini italiani ed europei sono?

Questa implicita connivenza fa da propellente allo Stato islamico. È ormai passato il messaggio secondo cui quei cani dei crociati se la sono cercata e dunque è lecito rispondere alle loro invasioni e alle loro nequizie con l’unica arma di cui ogni buon maomettano dispone: il proprio corpo. E chi può misurarsi con la carne imbottita di esplosivo? Non certo noi, che non sacrificheremmo neppure l’unghia del mignolo per difendere la nostra civiltà.

Il rituale di ogni attentato contempla che si blateri di condanna, sdegno e cordoglio unanimi per il sangue versato. In realtà non è affatto così. A esprimere riprovazione sono soltanto i Paesi colpiti. Bisognerebbe invece che tutti gli imam aggiornassero la loro teologia e sentenziassero in coro - sunniti, sciiti, wahabiti, alawiti - che no, i «martiri» suicidi non avranno affatto in premio il jannah, il regno della pace eterna e di ogni delizia, dove ad attenderli vi sarebbero le famose 72 vergini. Ma come possono predicarlo se, sotto sotto, molti di loro tifano per i fondamentalisti salafiti, che propugnano il ritorno alla purezza originaria dell’islam, all’occorrenza con metodi violenti?

Ecco perché non è indifferente capire quali saranno gli insegnamenti che l’Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose, attualmente ubicata a Roma, diffonderà una volta traslocata nell’ex calzaturificio Armani di San Giovanni Lupatoto (Verona), acquistato a un’asta fallimentare. L’annunciata apertura del centro di formazione per i chierici di Allah ha suscitato una legittima diffidenza nei cittadini, figuriamoci adesso, dopo la mattanza avvenuta in Belgio. C’è il rischio che la scuola musulmana possa sfornare fomentatori di odio? Va stoppata oppure no?

È di fronte a interrogativi come questi che avverto più acutamente la mancanza del professor Sergio Noja Noseda, travolto e ucciso da un furgone nel 2008, all’età di 77 anni, nei pressi della sua villa di Lesa, sul lago Maggiore. Presidente della Fondazione Ferni Noja Noseda per gli studi islamici, docente emerito di lingua e letteratura arabe alla Cattolica di Milano e di diritto musulmano all’Università di Torino, è stato con Christian Julien Robin ed Efim Rezvan fra i migliori arabisti che l’Europa abbia avuto. Tanto che l’Università Al Azhar del Cairo, il più antico e importante istituto accademico islamico di studi religiosi e giuridici, lo chiamò a tenere una lezione sul Corano di fronte a 30 imam e allo stesso rettore, lo sceicco Muhammad Sayyid Tantawi, suprema autorità mondiale dei sunniti. «I giornali egiziani erano in delirio per il successo di questo cane d’infedele», mi raccontò raggiante di felicità.

Noja Noseda, istriano di Pola, non aveva rinunciato di un millimetro alle sue origini cristiane, testimoniate nell’albero genealogico da un antenato che era stato compagno di giochi di Carlo V, il sovrano del Sacro Romano Impero sul cui regno non tramontava mai il sole. La sua dimora era priva di opere d’arte o simboli orientaleggianti: accanto a un disegno originale di Leonardo da Vinci, vidi solo dipinti del Guercino, del Canaletto e di Hayez e l’aquila imperiale che ornava il baldacchino del letto su cui morì Napoleone, ereditata dalla consorte Adriana Ferni, parente della moglie di Francesco Antommarchi, il medico che assistette fino all’ultimo il Bonaparte nell’esilio di Sant’Elena.

A Noja Noseda piaceva parlare chiaro. Considerava «cagate pazzesche» le poesie di Osama Bin Laden, «un triste imitatore di Hitler, un disgraziato che ha visto troppi film sulla crisi di Wall Street del 1929 e s’è convinto che bastasse l’11 settembre per far crollare l’economia occidentale con l’effetto domino». Al ritorno dai Paesi arabi m’informava d’essere stato «fra i cannibali». La prima volta che lo incontrai era reduce da una settimana passata a Teheran, unico occidentale invitato dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, allora il più pericoloso di tutti nella nostra percezione. «Ma no, lui è solo un Bossi dei poveri», ridacchiò. «Hanno imparato entrambi da Lenin: il modo migliore per superare i problemi interni è scaricare l’odio del popolo all’esterno».

L’illustre studioso aveva idee piuttosto chiare sull’intolleranza religiosa: «A Marken, un’isola di fronte ad Amsterdam abitata da protestanti della Gereformeerde Kerk e della Hervormde Kerk, due Chiese riformate calviniste, ti tirano i sassi se vai in bicicletta di domenica. A me e a mia moglie li lanciarono perché circolavamo in taxi. Eppure sono buoni cristiani».

Quale sarebbe stato il parere di Noja Noseda sull’apertura di una scuola per imam? Si può dedurre da ciò che mi confidò l’antivigilia di Natale di dieci anni fa: «Basta passeggiare per le strade di Algeri e ci si accorge che la maggioranza dei musulmani vuole portare i figli a scuola, far spesa nei centri commerciali e guardare un po’ di tv la sera. Niente di più. Non gli frega niente della politica. Quanto all’Europa, vige una sola regola, presa dal Talmud: “Dinà de-malkutà dinà”, la legge dello Stato in cui vivi è legge. Gli ebrei l’hanno sempre rispettata. Devono farlo anche i maomettani».

Appare improbabile che si possa proibire all’islam di aprire i propri seminari: la Costituzione garantisce la libertà di culto. In caso contrario, per simmetria lo Stato dovrebbe chiudere anche quelli cattolici. In Italia i fedeli del Corano sono 1,7 milioni e dispongono di cinque moschee ufficiali, cui se ne affiancano 695 informali. È pensabile di poter dichiarare guerra alla seconda comunità religiosa di questo Paese?

Ma poi: chi sono gli imam? «Fratelli immigrati che s’improvvisano guide religiose perché stentano ad arrivare a fine mese. Aumentagli lo stipendio di 100 euro e smettono di predicare», mi ha risposto Hamza Piccardo, uno dei fondatori dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia), che siede nel Consiglio dell’European muslim network. Ecco un ottimo motivo per istituire al più presto l’albo degli imam ufficiali, opportunamente istruiti e in qualche modo controllabili.

Del resto, la proposta di riconoscere i ministri di culto musulmani, al pari di preti cattolici, rabbini, pastori protestanti e pope ortodossi, è venuta dal Comitato per l’islam italiano, istituito, se non ricordo male, dal leghista Roberto Maroni, all’epoca ministro dell’Interno, il quale ne affidò la responsabilità all’allora sottosegretario Alfredo Mantovano, un magistrato cui tutto si potrebbe rimproverare tranne che la cedevolezza sui princìpi.

Non dimentichiamo che i tagliagole e gli attentatori dell’Isis risultano in larga maggioranza nati in Europa e reclutati qui. Sono frutti avvelenati della nostra civiltà, figli del tedio, del nichilismo, del materialismo, dell’individualismo, del relativismo, dell’indifferentismo. Giovani disperati, senza un lavoro, già stanchi di vivere, spesso drogati strafatti di Captagon, «ma anche ignoranti con una forte componente sadica», come mi ha suggerito Barbara Serra, conduttrice di Al Jazeera. La religione per loro è solo un pretesto per giocare alla guerra. Quando nel 2005 chiesi a Piccardo se i musulmani preferissero Karol Wojtyla o Joseph Ratzinger, che nel celebre discorso di Ratisbona aveva pronunciato parole molto dure sull’islam, la sorprendente risposta fu: «Nell’azione di Benedetto XVI scorgiamo un supplemento di fermezza che non ci dispiace. Un’identità forte genera sicurezza, migliora i rapporti fra le religioni. Un’identità debole crea chiusura».

Qual è l’identità che l’Occidente mostra all’islam? È quella «pastafariana», una religione professata negli Stati Uniti dalla Church of the flying spaghetti monster (la Chiesa del prodigioso spaghetto volante) e incarnata da Lindsay Miller, la quale, poiché le leggi americane non ammettono sui documenti foto identificative con cappelli o copricapi se non per motivi religiosi, ha ottenuto dalle autorità del Massachusetts il permesso di farsi fotografare sulla patente di guida con uno scolapasta in testa. È quella descrittami da Michele Brambilla, direttore della Gazzetta di Parma, che in una scuola materna della città emiliana ha visto sostituire la festa di Santa Lucia con una caccia al tesoro per non offendere gli alunni islamici e la recita natalizia con uno spettacolo intitolato Il brutto elefante: invece della nascita di Gesù, un profeta anche per i musulmani, è stato festeggiato il compleanno di Dumbo.

Voliamo alto, come si vede.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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