<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

Truffare i poeti, che vergogna!

(...) scrivono, pochi leggono.

Cercare di farsi stampare l’opera prima è purtroppo una missione (quasi) impossibile. Susanna Tamaro, oggi una bestsellerista, per un decennio fu rifiutata da 26 editori prima di trovarne uno, Cesare De Michelis, fondatore della Marsilio, disposto a pubblicarla.

Questo «vorrei ma non posso», anzi «vorrei ma non ci riesco», ha fatto fiorire industrie prospere con un’unica finalità: lucrare sugli esordienti. La prima è il self publishing, l’autopubblicazione: l’autore si rivolge ad aziende reperite su Internet che realizzano il suo libretto, ovviamente a pagamento, e glielo recapitano a domicilio. Volendo, glielo mettono pure in vendita sul Web. Una delle piattaforme più gettonate è «Il mio libro», del gruppo editoriale L’Espresso. Per tirare in 1.000 copie un romanzo di 250 pagine chiederebbe 10.660 euro, però, siccome è molto generosa, ti pratica d’ufficio uno sconto del 30 per cento, per cui ne sborsi 7.462: 7,46 euro a copia. Un patrimonio. Infatti stiamo parlando di brossura senza pretese, dalla copertina morbida, e di stampa digitale, forma evoluta della fotocopia. Giusto per fare una comparazione, la Grafica Veneta di Fabio Franceschi, leader europea nella produzione di quanto si trova nelle librerie, per circa metà costo (4.000 euro) offre agli editori professionali il doppio, cioè 2.000 copie di un volume da 500 pagine, con la copertina rigida, o cartonata che dir si voglia: 2 euro a copia.

L’altra strada che gli aspiranti scrittori hanno davanti - più che altro un vicolo cieco - è quella dell’editoria a pagamento, nel senso che l’Italia pullula di editori, o sedicenti tali, i quali in cambio di soldi pubblicano qualsiasi cosa. Il loro mestiere non è né scoprire né lanciare talenti, bensì turlupinare gonzi. Tu gli spedisci l’originale che tenevi nel cassetto, loro ti rispondono sempre che è meraviglioso; indi ti chiedono di partecipare alle spese di edizione (salatissime), ti stampano tot copie del libro e te le inviano a casa, così tu puoi regalarle a parenti e amici o venderle in proprio a chi ti pare.

Denise Giuliani, segretaria di uno studio legale veneto, ha compiuto un esperimento assai istruttivo in proposito. Ha inviato a un «editore» un dattiloscritto, spacciandolo come proprio. In realtà si era limitata a riversare in un file il testo integrale di Io non ho paura, romanzo di Niccolò Ammaniti uscito 15 anni fa, da cui il regista Gabriele Salvatores trasse l’omonimo film. Si è soltanto preoccupata di cambiargli il titolo: Storia di un bambino.

A breve giro di posta, l’«editore», che ha sede a Roma e si fa pubblicità su importanti quotidiani e reti televisive nazionali, ha informato la signora Giuliani che la sua opera prima - si fa per dire - sarebbe stata esaminata da un «comitato di lettura». Dopo 40 giorni, la fortunata autrice ha appreso per lettera che Storia di un bambino era stata letta «con interesse» e aveva «ben impressionato» la casa editrice, il che, per quanto surreale, non stupisce, trattandosi in realtà di Io non ho paura, romanzo che ha venduto 1,6 milioni di copie. Semmai si dovrebbe concludere che il «comitato di lettura» non conosce i best seller degli autori più affermati, altrimenti si sarebbe accorto del plagio plateale. Referenza poco incoraggiante.

La lettera di congratulazioni era accompagnata da un «accordo di edizione», da restituirsi firmato, in base al quale l’«editore» si dichiarava disposto a pubblicare «l’Opera», con la maiuscola, ma a una condizione: che Denise Giuliani s’impegnasse a «fare acquistare, o acquistare direttamente, presso la nostra casa editrice un quantitativo pari a 200 copie del suo libro, al prezzo di copertina di euro 13,90». Che saranno mai 2.780 euro per una scrittrice ansiosa di diventare tale?

Ogni giorno nasce un cucco e beato chi lo cucca, osserveranno i più cinici. Io penso, al contrario, che abusare della credulità popolare (un reato) e spacciare illusioni a pagamento (un’infamia) siano fra le azioni più abbiette, proprio perché a farne le spese sono persone indifese, inesperte, nel caso di specie idealiste e sognatrici. Prendere in giro e depredare chi davvero crede, in cuor suo, di poter nutrire ambizioni da romanziere o da poeta è imperdonabile. Dunque la segnalazione di Denise Giuliani meriterebbe un premio al valore civile.

Nel 2004 smascherai forse per primo questa vergogna con un test che è raccontato da Silvia Ognibene nel saggio Esordienti da spennare (Terre di mezzo). Notata sulla prima pagina della Repubblica l’inserzione pubblicitaria di un «editore» di Ragusa, che prometteva l’ammissione nella collana «Poeti italiani contemporanei», rabberciai in un paio d’ore 31 poesie copiandole di sana pianta da celebri frasi di vari personaggi: Shakespeare, Apollinaire, Flaubert, Mussolini, Giovanni Paolo II, Agnelli, Berlusconi, Di Pietro, D’Alema. Già che c’ero, c’infilai brani tratti dalla Tosca di Puccini, da Carosello («Fino dai tempi dei garibaldini, China Martini, China Martini»), dalla Bibbia, dal Corano.

Intitolai la raccolta Pensieri e parole, come la canzone di Lucio Battisti. La prima poesia, A modo mio, altro non era che la traduzione della celeberrima My way di Frank Sinatra. Approvata. La seconda: «Passi echeggiano nella memoria / lungo il corridoio che non prendemmo / verso la porta che non aprimmo mai / sul giardino delle rose». Fregata a Thomas Stearns Eliot. Titolo d’obbligo: Io, tu e le rose. Copyright Orietta Berti. Approvata anche questa.

Terza poesia: «Quanto più si avanza nel piano, / il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, / da quell’ampiezza uniforme; / l’aria gli par gravosa e morta...». Dall’arcinoto capitolo ottavo («Addio, monti») dei Promessi sposi. Cercai vanamente di mettere in guardia l’«editore» intitolandola Arrivederci, monti. Macché, approvata.

«Una ben triste pace è quella / che ci reca questo giorno. / Quest’oggi il sole, in segno di dolore, / non mostrerà il suo volto, sulla terra». I versi finali della tragedia scespiriana Romeo and Juliet. Titolo: The end. Nessun sospetto. Approvata.

Nel dubbio che i miei esaminatori fossero attempati, cercai d’indirizzarli con la poesia Colpi di testa: «Io sono il vento / sono la furia che passa / e che porta con sé / e nella notte ti chiama / che pace non ha / son l’amor / che non sente e che va». Chi ha i capelli grigi, vi avrà riconosciuto la canzone che Arturo Testa presentò al Festival di Sanremo del 1959. Approvata come se fossero versi inediti.

Insistetti con Non dura: «Oggigiorno tutto è una lusinga, / non dura, non può durare / vive solo chi non se la prende / e cantare sempre può», versione corretta del duetto «dura minga, dura no» fra Ernesto Calindri e Franco Volpi nello spot in bianco e nero della China Martini, anni 1957-1963. Bevuta.

La poesia Ditelo con i fiori, quantunque fosse trasparente la presa per i fondelli dello slogan rubato a Interflora, non fu riconosciuta dai miei valutatori per quello che era, uno scampolo dall’aria pucciniana Vissi d’arte: «Sempre con fe’ sincera, / la mia preghiera / ai santi tabernacoli salì. / Sempre con fe’ sincera / diedi fiori agli altar. / Nell’ora del dolore perché, / perché Signore, perché / me ne rimuneri così?».

Supponendo che i reclutatori di poeti italiani contemporanei fossero almeno appassionati di cinema, gli sottoposi la poesia Fantascienza, ricavata da un notissimo dialogo del film Blade Runner: «Ho visto cose che voi umani / non potreste immaginarvi: / navi stellari in fiamme al largo dei bastioni di Orione». Non fecero un plissé.

Ne dedussi che l’unica cosa che interessava all’«editore» era la letterina speditami per posta: «Abbiamo il piacere di comunicarle che la sua raccolta di poesie, della quale abbiamo apprezzato i contenuti e le originali qualità espressive, ha ottenuto il parere favorevole alla pubblicazione». Avrei dovuto scucire 2.000 euro (1.800, con lo sconto del 10 per cento, a patto di versare l’importo in anticipo e per contanti). Sarebbe stata la prima volta che mi toccava pagare per vedermi pubblicato. Ma se a reclamizzarlo era La Repubblica, doveva essere sicuramente un affarone. Mi si offrivano tre vantaggiose alternative per il saldo: quattro rate consecutive da 500 euro, oppure otto rate da 250, oppure dodici rate da 166,67. Nell’intento di ingolosirmi, allegarono un libretto di liriche, 74 pagine in tutto. Il mio non sarebbe arrivato a 40. Una circolare ciclostilata era più conveniente.

Rinunciando a diventare Giacomo Leopardi, denunciai il tutto a mezzo stampa. Dopodiché fui costretto a querelare l’«editore» perché sul Web sosteneva che lo avevo ingannato! Naturalmente fu condannato per diffamazione. Ma in appello si vide prescrivere il reato, essendo nel frattempo passata una decina d’anni. Pur di non versarmi 15.000 euro di risarcimento e 2.500 euro di spese legali, come stabilito dal giudice di primo grado, ha addirittura presentato ricorso in Cassazione. Sono certo che vincerà e non dovrà sborsare neppure un quattrino. In Italia i poeti perdono sempre.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

Suggerimenti