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Toscani, ti ricordi
di Calabresi?

Oliviero Toscani (a destra) presenta con Romano Prodi e Livia Turco la sua campagna dalla foto sbagliata
Oliviero Toscani (a destra) presenta con Romano Prodi e Livia Turco la sua campagna dalla foto sbagliata
Oliviero Toscani (a destra) presenta con Romano Prodi e Livia Turco la sua campagna dalla foto sbagliata
Oliviero Toscani (a destra) presenta con Romano Prodi e Livia Turco la sua campagna dalla foto sbagliata

(...) Andrea Bacciga lo denunciò. Alcuni Comuni vicentini lo bandirono dal loro territorio come «persona non gradita». Ma che vi aspettavate da un iconoclasta che in Toscana produce un salame denominato con una mezza bestemmia e che, per reclamizzare l’olio della propria tenuta, ha accostato la Vergine di Giotto all’Extravergine spremuto a freddo? Ecco, sono caduto nel suo tranello, ne ho parlato e mi sono squalificato da solo, facendogli pubblicità.

Ora il sobillatore s’è inventato che il Vinitaly va trasferito a Milano, perché la città che lo ospita da 50 anni «non è più adeguata». A suo avviso, «la Fiera di Verona è una realtà di pregio inserita in un contesto difettoso e difettato». I due articoli che davano conto di queste opinabili esternazioni sono risultati fra i più commentati sul sito dell’Arena. Ho trovato folgorante un parere: «Toscani, fatti un bel selfie così vediamo anche il tuo lato negativo!».

Nei suoi sproloqui alcolici c’è un’aggravante specifica: la nonna di Toscani, Maria Ambrosi, era originaria di Verona. Morì quando lui aveva 14 anni (risparmiandosi così tante inutili sofferenze). Tutte le volte che ci vediamo, non manca mai di ricordarmelo. Per nonna Maria il nipote non si chiamava Oliviero: era Nano. La vegliarda aveva capito tutto con largo anticipo. Anche la madre di Toscani si rassegnò subito alla croce che le era toccata. È stato lui a raccontarmi che, appena nato, fu mostrato alla spossata puerpera: il bebè, in segno di riconoscenza, le orinò sulla faccia. La poveretta ha continuato a rammentare l’episodio fino alla morte: «L’è pu cambià, l’è semper istess».

Nell’aggrovigliata doppia elica del Dna di Toscani c’è una variante cromosomica etilica che non lo autorizza, pur essendo nato a Milano, a dare degli ubriaconi solo ai veneti. Infatti la prima volta che c’incontrammo, una quindicina d’anni fa, fu nella distilleria del comune amico Italo Maschio, inventore di Prime Uve, a Gaiarine (Treviso), insieme con Luciano Benetton e Marco Caprai, produttore del Sagrantino di Montefalco. Era inverno, un feroce mal di gola mi sconsigliava di partecipare alla serata, ma ormai avevo dato la mia parola. Maschio ci mise tutti e quattro a distillare agrumi calabresi e siciliani, un test dal quale sarebbe uscito il Prime Arance. Seguirono gli assaggi per valutare la bontà dei nettari gocciolati dagli alambicchi. Finimmo di bere verso l’una. La mia faringite era sparita. Toscani, il più brillo della combriccola, salì sulla sua auto (una Porsche gialla, se non ricordo male) e se ne andò zigzagando nella nebbia, felice che non fosse ancora stata introdotta la patente a punti.

A cena in casa Maschio avemmo il nostro primo litigio sul tema che subito dopo segnò la fine del ventennale rapporto con Benetton. Toscani aveva provato a vendere più maglioni colorati utilizzando immagini di detenuti americani reclusi nel braccio della morte. I parenti delle vittime di omicidi protestarono con un corteo sulla Quinta Strada di New York, i grandi magazzini Sears risolsero il contratto con l’azienda di Ponzano Veneto e lo Stato del Missouri, nei cui penitenziari erano state scattate le fotografie, trascinò in giudizio la Benetton, accusando l’autore di averle carpite con l’inganno. Insomma, un disastro. Dissi a Toscani: comodo rubare istantanee nelle prigioni degli Stati Uniti, ma perché, visto che sei tanto coraggioso, non vai a farlo in Cina o in Iran, dove si contendono il record mondiale di esecuzioni capitali? Diede in escandescenze, ma non seppe rispondere.

Anni dopo gli riproposi lo stesso quesito in un’intervista. Replicò: «Si fotografa la miseria in via Montenapoleone, non nelle bidonville di Nairobi», frase a effetto che ha lo stesso tasso di significatività di «fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio».

Toscani è questo: un ammazzasette che ha fatto i soldi spacciando lampi d’ovvietà per flash di genio. Che l’attenzione delle masse sia attirata da campagne pubblicitarie raffiguranti un malato di Aids morente nel letto, la maglietta di un guerrigliero liberiano intrisa di sangue, un cavallo che monta una cavalla, un prete che bacia una suora o la modella anoressica Isabelle Caro ridotta a 30 chili di peso che espone il suo scheletro rivestito di pelle grinza, prima di congedarsi dalla vita all’età di 28 anni, a me è sempre sembrata una faccenda riguardante più la psicopatia che l’originalità. Lui non crea: sfrutta le miserie umane che lo circondano. Lui non interpreta: fa l’inventario delle scabrosità con la stessa perseveranza di un entomologo che colleziona scarabei stercorari. Qualora finisse la cacca, andrebbero in crisi entrambi, il fotografo e l’entomologo, e pure gli scarabei. Ma si tratta di un’eventualità remota: la materia prima abbonda.

Una volta chiesi a Toscani se non reputasse indegno l’uso del corpo femminile in pubblicità. Risposta: «Di norma, sì. Come l’uso dei testimonial». E allora perché hai utilizzato il sedere di una ragazza in hot pants per reclamizzare L’Unità?, gli obiettai. La giustificazione fu: «Era il culo di mia figlia Lola». Un’attenuante, nella sua graduatoria valoriale. D’altronde stiamo parlando di un personaggio che, qualora si trovasse davanti a due porte chiuse e gli dicessero che dietro quella di destra c’è Dio e dietro quella di sinistra c’è Satana, lui per curiosità aprirebbe quella di sinistra, come mi ha spiegato.

Siccome adesso ha avuto anche l’ardire di definire Verona «un contesto difettoso e difettato», vale la pena di spendere due paroline su un paio di lavori difettosi e difettati che questo signore è riuscito a rifilare agli enti pubblici. In una dispendiosa campagna per la Regione Calabria ha scritto «Si, siamo calabresi» senza l’accento sulla particella affermativa. Poco male, direte voi: anche sulle schede del referendum di domenica scorsa figurava un «si» privo di accento. È quello che pensava pure Seneca: la moltitudine dei peccatori toglie la vergogna del peccato. Ma quando i peccatori vengono strapagati, i peccati di ortografia non sono ammessi.

Altro esempio. Nel 2008 il ministro Livia Turco decise di sperperare 1,5 milioni di euro per celebrare i 30 anni del Servizio sanitario nazionale, lo stesso che lesina sul filo da sutura nelle sale operatorie. Perciò commissionò a Toscani la solita campagna. Il mandato era quello di «rappresentare la bella sanità». Capirai. Il Cartier-Bresson de noantri se la cavò fotografando una procace infermiera che aveva sulla crestina il simbolo della Croce rossa sbagliato: bianco in campo rosso. La bandiera della Svizzera. In altre parole trasformò la crocerossina in una crocebianchina. Forse era suggestionato dalle sexy nurses rintracciabili in Internet: Mario Natucci, giornalista veronese trapiantato a Milano, mi ha spiegato che su Ebay si vendono camici con quel simbolo per i malati di sesso. Lo slogan era: «Pane, amore e sanità». Mancava la fantasia, ma fa niente.

Notificai a Toscani il grossolano errore. «Sul serio?», si stupì, precipitandosi davanti al monitor del suo Mac per controllare. «Accidenti, hai ragione», concluse. Dopodiché sparò la più inverosimile delle giustificazioni: «Eppure la crestina me l’aveva data una mia amica di Vicenza, Serena Serblin, dama sui treni per Lourdes». Nel frattempo il ministero della Salute aveva saldato la fattura al creativo, senza battere ciglio. Resta da capire a che cosa sia servito quel battage: forse che, dopo aver ammirato la porno infermiera dalla cuffia sbagliata, gli italiani si sono ammalati più volentieri?

La campagna apparve ovunque: giornali, cinema, affissioni stradali, mezzi pubblici, aeroporti. All’epoca una pagina di pubblicità sulla Repubblica costava 151.000 euro più Iva, 204.000 rivalutati a oggi (escluso l’onorario della Sterpaia, l’agenzia di Toscani, si capisce). E intanto un medico specializzando in cardiochirurgia neonatale al Gaslini di Genova veniva ricompensato con 800 euro.

A proposito della Repubblica. Toscani mi ha confidato che sogna di assumere la guida della testata fondata da Eugenio Scalfari. Dice che vorrebbe «disallinearla». Vada a spiegarlo al direttore, Mario Calabresi, orfano del commissario di polizia Luigi Calabresi, avessi visto mai che gli lascia il posto.

Come referenza, potrebbe esibirgli la lettera aperta uscita nel giugno 1971 sull’Espresso, nella quale il genitore di Calabresi veniva accusato di essere il responsabile della tragica fine dell’anarchico Giuseppe Pinelli, una falsità che Lotta continua tradusse in condanna a morte. Comparivano due firme, fra quelle di 757 intellettuali, in calce all’infame appello: Fedele Toscani e Oliviero Toscani. Padre e figlio. Buon sangue non mente.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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