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Prima comunione con materasso

(...) eucaristico. L’ultima volta che ho visto fare il segno della croce a tavola, prima del pasto, fu tre lustri orsono alla Taverna del Capitano, ristorante stellato sulla Costiera amalfitana. Ma si trattava di quattro turisti americani.

Confesso: della prima comunione, ricevuta a 7 anni, rammento solo l’abito indossato per l’occasione. Era il primo della mia vita: completo grigio a pantalone corto, con due coppie d’inspiegabili bottoni laterali all’altezza delle ginocchia, cucito dalla signora Mari, sarta di gran classe ma con laboratorio in cucina. Bianchi i calzettoni e le scarpe. Pranzo apparecchiato in casa, preceduto addirittura da un rinfresco. Roba da sióri per una famiglia di pitocchi. Di quella domenica 19 aprile 1964 mi resta un imprinting papillare: tartine con burro e acciughe. Allora non sapevo che esistessero le alici, non mi era mai capitato di mangiarle. Mezzo secolo dopo, Riccardo Felicetti, titolare a Predazzo del pastificio più a nord della penisola, mi avrebbe confermato che burro e acciughe è il condimento preferito per i suoi spaghettoni.

Che altro mi ricordo? Ah, sì: il digiuno eucaristico, ridotto a tre ore con motuproprio di Pio XII nel 1957. In precedenza ci si doveva astenere dal cibo a partire dalla mezzanotte. Due suore della Misericordia seguivano il prete reggendo una brocca e un bicchiere. Il terrore di non farcela a ingoiare la particola era persino superiore all’incubo della mano guantata con cui tre settimane dopo il vescovo ci avrebbe schiaffeggiato per cresimarci, così si favoleggiava. Gesù andava deglutito intero e una sorsata d’acqua poteva essere d’aiuto ai comunicandi. Da allora, non ho mai osato masticarlo.

Ne deduco che questo sacramento riguardi più gli adulti che i bambini. Ho imparato a 44 anni che cosa rappresenti, andando a intervistare Gino Girolomoni sulle colline di Urbino. Si faceva chiamare Alce nero, nome dello sciamano degli Oglala, la tribù dei Sioux, «perché i contadini sono come gli indiani, loro rinchiusi nelle riserve, noi confinati nei campi, stesso peso politico: zero». Era appunto un contadino, Girolomoni, barba da patriarca biblico. A Isola del Piano aveva fondato una cooperativa di prodotti biologici. Il suo sogno, che non si sarebbe realizzato, era di morire nel deserto del Negev, sull’Har Karkom, da molti studiosi identificato con il monte Sinai su cui Mosè ricevette le tavole della Legge. Ci tornava ogni anno per Pasqua.

I giornali dipingevano Girolomoni come un José Bové, il paladino antiglobal dei coltivatori diretti francesi. Ma l’assaltatore di McDonald’s distruggeva, mentre lui costruiva. Aveva restaurato il monastero di Montebello, risalente al 1380 e da secoli in rovina. Sovente vi ospitava intellettuali come Guido Ceronetti, Carlo Bo, Paolo Volponi. Il biblista Sergio Quinzio trovò rifugio a Montebello dopo che la moglie Stefania, trentenne, era morta. «Faceva la comunione tutti i giorni e tutti i giorni lo vedevo piangere mentre il sacerdote gli porgeva la particola», mi raccontò Girolomoni.

Ecco, per poter piangere, bisogna capire. Nel primo millennio l’eucaristia si dava anche ai neonati. Più tardi San Tommaso d’Aquino pensò che l’età giusta fosse 14 anni per i maschi e 12 per le femmine. I giansenisti avrebbero voluto procrastinare l’appuntamento intorno ai 20. Papa Pio X, un veneto, confermò la prassi introdotta dai concili Lateranense IV e Tridentino: età della ragione, dunque 7. Oggi ci si regola con il calendario scolastico: quarta classe. Ma che cosa capirà, di un mistero tanto grande, un fanciullo di 10 anni? Dice nulla il fatto che l’appuntamento successivo, quello della cresima, venga definito dai parroci «il sacramento dell’addio», nel senso che da lì in avanti i ragazzi si dileguano?

«Sant’Agostino fu battezzato a 33 anni, invece noi pretendiamo di costruire la casa partendo dall’ultimo piano, anziché dalle fondamenta. E ricattiamo i bambini: se non vieni al catechismo, non ti ammetto alla prima comunione», scuoteva il capo don Giuseppe Dal Pozzo, il giorno in cui lo incontrai a Taglio Corelli, parrocchia di frontiera nel Ravennate. Ci era arrivato in motorino il 30 giugno 1955, verso sera. Non trovò ad accoglierlo neppure la chiesa: non esisteva. Solo una popolana. Che gli disse: «Ecco la chiave della canonica. Ma se vuol tornare da dov’è venuto, noi stiamo bene lo stesso».

È morto nel gennaio scorso, l’eroico don Dal Pozzo, a 87 anni. Predicava che le persone non si dovrebbero battezzare appena partorite, bensì da adulte, nell’età in cui possono comprendere: «Cristiani si diventa, non si nasce». Ha prestato il suo servizio sacerdotale sempre lì, in quella sperduta località di campagna dove l’80 per cento votava per il Pci. Celebrava la messa da solo, con il portone della chiesa spalancato anche d’inverno, nella speranza che entrasse a farsi santo almeno un cane randagio.

«Deve capire che il Pci non era un partito, bensì una Chiesa, e il comunismo una religione», mi spiegò. «Per questa gente il tesseramento equivaleva al nostro battesimo. Non li ho mai scomunicati quando li vedevo accendere le candele davanti ai ritratti di Stalin. Anzi, dicevo fra me: siete santi. I cattolici la sera guardavano il varietà in tv. Loro invece tornavano a casa dai campi, stremati dalla fatica, e si mettevano a studiare sui testi del partito. C’era da stare in ginocchio davanti a gente così. Una volta mi chiamarono a benedire un morto già composto nella bara: nella tasca della giacca s’era fatto infilare L’Unità. Io non ho mai visto una copia del Vangelo dentro il feretro di un cristiano. A Padova, nella basilica di Sant’Antonio, ogni anno si distribuiscono un milione e 300.000 comunioni. Se cinque, dico cinque, venissero fatte qui, qualcuno se ne accorgerebbe. Il santuario è il luogo dove tu porti, non dove tu prendi».

Compresi appieno il valore del Corpus Domini soltanto quando vidi che persino la morte si rassegnava ad aspettare fino a sera tardi per cedergli il passo: mia madre non voleva andarsene prima che il nipote prete le avesse portato l’ostia nel letto d’ospedale. Non poté che riceverne un pezzettino, perché ormai dalla gola non passava più nulla. Quel frammento era ancora sulle sue labbra la mattina seguente, mentre gli infermieri gliele serravano per sempre con un lenzuolo annodato attorno al viso. Pensai a Giobbe: «Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia».

Qual è l’immagine che oggi il Belpaese offre delle prime comunioni? È quella di un bambino assiso su un trono bianco, con un vestito dello stesso colore e una croce di legno che gli pende sul petto, mentre piange di vergogna e si copre gli occhi per non dover assistere allo sguaiato balletto di due sudamericane piumate con le chiappe al vento, organizzato in suo onore dai parenti in un ristorante di Altamura (Bari). È quella della bambina immortalata davanti alla chiesa di San Giovanni Bosco, nella stessa cittadina pugliese, mentre scende come Cenerentola da una carrozza con cupola in vetro, trainata da due cavalli bianchi governati da un cocchiere in frac.

Esagerazioni tipiche del Sud, si dirà. Non crediate che dalle nostre parti succeda di meglio. Mi raccontano di bambini che si accostano all’eucaristia smandrappati, con chiome fluorescenti (molto gettonato il blu elettrico) e taglio alla mohicana. La loro unica ansietà, povere anime, è per il regalo. I maschi s’innervosiscono se non ricevono Star Wars, gioco della Lego; le femmine pretendono la macchina fotografica digitale. Non parliamo poi della spasmodica ricerca del catering e della location giusta fra dimore storiche, torri scaligere, antiche dogane, ristoranti con stella Michelin (lo saprà il Papa francescano?). E tralascio di prendere in esame un campionario che mi è stato esibito, includente bomboniere, confetti multicolori, angioletti, appendini per comunione in resina (testuale), crocefissi made in China, tau, animaletti, cuoricini, profumatori per ambienti, barattoli in ceramica anticata a forma di pinguino, ballerine in porcellana e portafoto. In fin dei conti anch’io ebbi una scatoletta di plastica madreperlata dai bordi irregolari. Però all’interno, adagiato su un tampone di cotone azzurro, c’era un rosario.

Lo dico ai genitori, sperando che anche gli arcipreti intendano: non potete preparare la prima comunione dei vostri figli con riunioni precedute o seguite da presentazioni di materassi, come spesso accade nelle sale parrocchiali noleggiate ai venditori di ortopedici e sanitari. Meglio se vi ci coricate sopra e vi fate una bella dormita. Tutto tempo guadagnato.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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