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IL PERSONAGGIO. Una pagina inedita delle vicende familiari del celebre scrittore. Il sesto degli otto figli fu irrequieto, sempre in bolletta ma geniale nella meccanica

Peppino,
il Pascoli
discolo

Giuseppe Pascoli (1859 San Mauro di Romagna- 1917 Bolzano Vic.)Il poeta Giovanni Pascoli (1955-1912) con la sorella Mariù nel giardino  della casa di Barga
Giuseppe Pascoli (1859 San Mauro di Romagna- 1917 Bolzano Vic.)Il poeta Giovanni Pascoli (1955-1912) con la sorella Mariù nel giardino della casa di Barga
Giuseppe Pascoli (1859 San Mauro di Romagna- 1917 Bolzano Vic.)Il poeta Giovanni Pascoli (1955-1912) con la sorella Mariù nel giardino  della casa di Barga
Giuseppe Pascoli (1859 San Mauro di Romagna- 1917 Bolzano Vic.)Il poeta Giovanni Pascoli (1955-1912) con la sorella Mariù nel giardino della casa di Barga

Giovanni Brutto
Giuseppe Pascoli, fratello del poeta Giovanni, fu uno scapestrato ma anche genio della meccanica. Visse gli ultimi sei anni della sua inquieta esistenza a Bolzano Vicentino, dove morì il 6 marzo 1917. Lasciò alla consorte Lucia Volpe, sei “orfanelli”. E si ripetè così il crudele destino degli orfani Pascoli.
Venne emarginato dalla famiglia, in particolare, dalla sorella Maria, muta e indomita vestale di casa Pascoli dopo la scomparsa del poeta, che ricordò Giuseppe ne “Il giorno dei morti”.
Giuseppe Pascoli, detto Peppino, sesto degli otto figli di Ruggero, amministratore della tenuta (circa duemila ettari) la “Torre” dei principi Torlonia e assassinato il 10 agosto 1867, nacque a s. Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli) il 21 luglio 1859. In recenti studi biografici sulla tormentata vita del poeta Giovanni (1855-1912), Peppino viene definito bambino difficile, d'indole tendenzialmente chiusa, che a malapena riusciva ad integrarsi nel gioco coi fratelli maggiori, complice lo stacco d'età tra loro. Non godette mai di un calore familiare: la madre, Caterina Vincenzi Allocatelli, piegata dal dolore per l'assassino del marito, morì nel dicembre 1868, quando lui aveva 9 anni. Di qui la genesi del suo disadattamento. Nel 1872 dovette uscire dal collegio “Raffaello” di Urbino retto dagli Scolopi, poiché il fratello maggiore Giacomo, che fece le veci del padre, non poteva pagarne la retta. Dopo aver frequentato per un anno le scuole tecniche, nel 1873, venne interdetto da tutti gli istituti scolastici del Regno d'Italia, a causa della sua indisciplinatezza. Venne mandato ad Ancona, “a bottega” da un orologiaio per apprenderne il mestiere. Era svogliato e l'apprendistato durò poco. Iniziò il “ramingare” di Peppino che si concluse solo nel 1911.
Senza lavoro, sfaccendato, sovente per sopravvivere ricorreva al fratello Giovanni, scrivendogli lettere con richieste di denaro. Mise in scena ricatti e sceneggiate. A determinare la sua estromissione dalla famiglia Pascoli, fu lo stile di vita sregolato e bizzarro. Questo indusse la sorella minore Mariù la “pallidina” ad issare una invalicabile barriera tra lui e Giovanni, che doveva aiutarlo di nascosto. Al primogenito di Peppino, Giovanni, che voleva riallacciare i rapporti di parentela dopo la morte del poeta, la zia Mariù rispose: “ Io non ricevo chi non conosco”.
Ma c'è un altro aspetto della personalità di Peppino Pascoli, per cui va ragionevolmente rivalutato: la sua genialità nella meccanica, tra il 1897 e il 1909, lo portò a collezionare tredici attestazioni, comprensive di onorificenze e di brevetti. Progettò letti e barelle per ospedali e da campo, carrozzelle per bambini e, fra i brevetti, vanno segnalati l'agganciatore meccanico per vagoni ferroviari, la cassetta postale per lettere con sistema anti pioggia (1907) e, il contatore idraulico (1909). Va detto che la sua inventiva non andò di pari passo con gli agognati ricavi economici, che da essa avrebbe dovuto ricevere. Delle sue lodevoli invenzioni nel campo della meccanica, nessuna andò per il giusto verso, perché non appena commercializzate, Peppino veniva raggirato da individui senza scrupoli. Spesso in preda al destino, che con lui fu costantemente sferzante, e alle reali difficoltà economiche, il 19 novembre 1902, si rivolse all'antica governante dei Pascoli, Bibbiana, chiedendole un aiuto finanziario. Le scrive Giuseppe: «Ieri sotto una neve e freddo, giunsi a Milano da Lugano dopo due giorni di cammino e di fame. Io sono qui a Milano in condizioni deplorevoli, senza di che coprirmi, rabbrividendo dal freddo che ogni giorno più incalza. Vedi se mi potessi far aiutare con qualche rinuncia di scarpe, calzoni e giacca e se tu avessi ancora quella mia maglia e mutande me ne faresti un pacchetto ... Bibbiana sono nelle tue braccia...». E si firmò: “Infelicissimo Peppino”. In filigrana dell'accorata richiesta, traspare un'ansia esistenziale che pare travolgerlo in un turbine di inarrestabile angoscia.
Alla sua vita esente da fissa dimora e priva di un modesto giacilo, come da documento inedito, la cui copia ci è stata gentilmente concessa da Guardino Pascoli, depositario delle memorie del nonno Giuseppe, fa riferimento il poeta Giovanni ne “Il giorno dei morti”: “Ora, in ginocchio, pregano Maria/ al suono delle campane, alte lontane,/ per chi qui giunse, e per chi resta in via/ là; per chi vaga in mezzo alla tempesta,/ per chi cammina, cammina, cammina,/ e non ha pietra ove posar la testa”. Nei versi appena riprodotti, è ritratto proprio il fratello Giuseppe. Nel 1903, trovandosi a Belluno per l'assemblaggio di una macchina atta alla lavorazione del legno, Peppino conobbe Lucia Volpe (1877-1959), maestraelementare, la quale, benché di diciotto anni più giovane di Peppino, se ne innamorò perdutamente. Si unirono inmatrimonio il 10 ottobre 1904. Da Belluno, passarono ad Agordo, poi a Falcade. In tale tragitto, imposto da esigenze d'insegnamento di Lucia e, caratterizzato da nonpoche e prolungate assenze di Giuseppe dovute al promuovere i suoi brevetti e a malattia, nacquero i primi quattro figli: Giovanni (1905-1965), Riccardo (1906-1926), Luigi (1908-1995) e Carlo (1910-1996). A Vicenza, con l'obiettivo di trovare lavoro, Giuseppe e famiglia, arrivarono nel luglio 1911. Nell'autunno dello stesso anno si trasferirono a Bolzano Vicentino, dove, Lucia Volpe, dal novembre 1911, al settembre 1936, insegnò nella locale scuola elementare. A Bolzano Vicentino (nel 1913, contava 2725 abitanti), in cui vennero alla luce gli ultimi due maschi, Mario (1912-1942) ed Enrico (1914-1943), Giuseppe, anagraficamente allibrato quale “meccanico”,nonebbe un'occupazione lavorativa stabile. Considerata– allora - la vocazione esclusivamente rurale del borgo, Giuseppe deve aver bussato ripetutamente alla porta del sindaco Francesco Benedetti (1822-1917), per ottenere qualche modesta commessa. Ne sono una prova gli esborsi che l'amministrazione comunale erogò in suo favore, il 13.11.1912 e il 16.04.1913, rispettivamente “Per verniciatura e filettatura di n. 4tavole nere per le scuole si delibera pagare £. 20 a Pascoli Giuseppe” e “Per n. 7 targhe in lamiera zincata dipinte colla scritta “E' limitata la corsa veloce” e disposte sui punti opportuni lungo le strade delComune,si delibera pagare £. 56 al Sig. Pascoli Giuseppe che le eseguì...”. Inoltre, la sua presenza nel vecchio municipio (1657-1970) di Bolzano Vicentino è documentata, dall'aprile 1913 all'ottobre 1916, da atti anagrafici, in cui risulta come testimone ad alcune dichiarazioni di nascita. Nonostante la sua predisposizione riservata, a Bolzano Vicentino, familiarizzò colmessocomunale e nelcontempo fabbro-meccanico Luigi Galvan (1864-1939) e con i componenti dellascomparsa famiglia Parolin, inizialmente falegnami e rigattieri, in seguito, osti e panettieri, e detentori – comeenfaticamente afferma lo stile giornalistico dell'epoca – dell' “Albergo Parolin”, di cui Peppino, forgiò l'insegna in ferro. Giuseppe Pascoli, sotto gli occhi ingenui e increduli dei figli, mentre ravvivava il focolare con il soffietto morì - nella sua casa vicentina - di arresto cardiaco all'età di cinquantasette anni. Era il 6 marzo 1917, alle ore “quattro pomeridiane”: così recita l'attestazione di morte. Il giovanissimo arciprete don Albano Dovigo (1881-1953), che dei Pascoli “bolzanesi” ebbe particolare e solidale considerazione - in parrocchia dal 9 luglio 1916 - nel corso dell’omelia al funerale, disse - come narrò il figlio Luigi a chi scrive - : “Malgrado i suoi trascorsi, ebbe un sentimento, ebbe un cuore, formò una famiglia”. Con la dipartita di Giuseppe Pascoli, si ripetèancora una volta quel crudele destino cui, quasi arcanamente, furono soggette più generazioni Pascoli: Ruggero rimase orfano ad otto anni, Giuseppe orfano a nove anni, e così pure i suoi figli, il maggiore di dodici anni, il minore di due abbondanti. Lasciò sei “orfanelli” (è la definizione di Luigi Pascoli) i quali furono decorosamente cresciuti dalla madre Lucia Volpe che, in presenza di ristrettezze economiche ma con esemplare dignità, fu costretta a chiedere sussidi.

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