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Marta Marzotto e il sugo di topo

(...) di ritorno dallo studio legale associato Marzari-Capriotti di Milano, con la quale Marco Marzari, avvocato dell’ottuagenaria, mi diffidava dal dare corso alla pubblicazione del dialogo. Dopodiché, anche per intercessione di Matteo Marzotto, il figlio che ogni madre vorrebbe avere, la bizzosa vegliarda si ricredette e revocò l’embargo. Alla fine l’intervista le piacque talmente da meritarmi il bouquet riparatorio in formato maxi.

Aveva un debole per le rose, la contessa, come mi svelò rievocando i dieci anni d’amore con il terzo uomo della sua vita, Lucio Magri, allora segretario del Partito di unità proletaria per il comunismo, conosciuto a Roma nella casa di Eugenio Scalfari il giorno in cui nacque La Repubblica, morto nel 2011 in un centro svizzero specializzato nei suicidi assistiti. «Un rivoluzionario da salotto», così me lo descrisse. «Gl’interessava solo il bridge. Provai a ingelosirlo ordinando da un fiorista di via Veneto duemila rose bianche a gambo lungo, che vennero recapitate a casa mia senza bigliettino. Al rientro scoprii che Sufi, il governante somalo, aveva disfatto il mazzo e sparso i fiori nei vasi, sul terrazzo, addirittura dentro la vasca da bagno. Lucio non s’accorse di nulla e questa fu la mia punizione».

A un certo punto la Marta nazionale riuscì a far invaghire pure Sandro Pertini. L’inquilino del Quirinale parlava malissimo di Magri. «Fingeva di non ricordarne il cognome: “Come si chiama quello là? Quello bello che si specchia quando entra a Montecitorio...”. Il capo dello Stato mi telefonava tutte le mattine, alle 7.45 in punto, per una chiacchierata che si concludeva con la frase di rito: “Marta, si ricordi che lei è amata da un grande pittore e adorata da un piccolo presidente”. Io gli rispondevo ogni volta: presidente, guardi che finisco per crederci. E Pertini: “Ci creda, ci creda”».

Il «grande pittore» era Renato Guttuso, il secondo amore della sua vita. Un legame durato 20 anni. Il maestro siciliano la raffigurò financo nel quadro che dipinse per i funerali di Palmiro Togliatti. «Mai mettere in pericolo le famiglie, questo fu il nostro patto fin dall’inizio. “Per te Martina potrei morire, ma non uccidere”, diceva. Mimise, la moglie di Guttuso, era come una madre scomoda. Gli citofonava per avvertirlo che il pranzo era in tavola e Renato mormorava rassegnato: “Ecco la voce del padrone”. Per portarmi fuori a cena, doveva inventarsi qualche ricevimento all’ambasciata sovietica. Lei telefonava anche lì: “Cerco il compagno Guttuso”. Il massimo della trasgressione fu un viaggio di due giorni a Mosca quando gli consegnarono il premio Lenin per la pace. Dopo il pranzo in suo onore, offerto dal Soviet supremo al Cremlino, gli chiesi di portarmi a conoscere la donna amata da Boris Pasternak, la vera Lara, protagonista del Dottor Zivago, e l’attrice Lilja Brik, per la quale il poeta Vladimir Majakovskij si era ucciso. Mi trovai davanti due figure insignificanti, dai capelli stopposi tinti con l’acqua ossigenata».

Marta all’anagrafe faceva Vacondio. Il secondo cognome l’aveva ereditato, insieme con molto altro, dal primo marito, il conte Umberto Marzotto, secondogenito di Gaetano, il fondatore della dinastia tessile di Valdagno. Sua madre Alma aveva 26 anni quando restò incinta, suo padre Guerrino appena 18. Da piccola, nelle sere d’estate Marta andava per rane con il fratello Arnaldo. «Lui reggeva la lampada a carburo, a me toccava immergermi nei fossi. Al mercato ce le pagavano 100 lire al chilo». Mi spiegò che la sua frustrazione più grande fu quando le impedirono di mangiare un topo cucinato per il fratello. «A mia madre avevano garantito che era quello l’unico modo per curare l’enuresi notturna di Arnaldo. Ma io non facevo la pipì a letto, quindi niente pantegana. Mi venne concesso solo d’intingere un pezzo di pane nel sughetto».

La ragazzina dormiva in camera con la nonna Marcellina, una contadina che della nipote diceva: «Marta rispetta il limite, ma non lo conosce». Per materasso, i cartocci del granoturco. «A scuola ci andavo a piedi nudi, le scarpe me le infilavo solo prima d’entrare in aula. Dopo la terza media finii a fare la mondina. Mi fasciavo le gambe con le pezze per proteggermi dalle foglie taglienti del riso e dalle punture di zanzara. Le ferite s’infettavano subito, il prurito era lancinante».

A 15 anni, una domenica pomeriggio Marta andò per la prima volta a ballare. Fu eletta Miss Sesia. «Piombò lì mio papà, mi tirò giù dal palco, mi strappò la fascia celeste e mi riempì di cinghiate per quattro chilometri, dalla piazza fino al casello ferroviario». Il padre consegnava carbone a domicilio per arrotondare. Si metteva alle stanghe del carretto e la issava in cima ai sacchi, «così vedi il mondo dall’alto», le diceva. Alberto Moravia concluse che questo rituale aveva fatto di lei una «narcisista naturale».

Nel 1949 la ragazza trovò lavoro alla Tessile, un grande magazzino di Milano. Lì fu adocchiata da Gino Boccasile, il disegnatore che in tempo di guerra aveva realizzato il manifesto del soldato inglese con la mano a conchiglia dietro l’orecchio e lo slogan «Il nemico vi ascolta. Tacete!». La arruolò per la réclame delle calze Omsa: 1.000 lire a posa. Era diventata una modella.

Grazie a un défilé conobbe il suo futuro marito. «Accadde a Venezia, il 4 luglio 1952. Sfilavo all’Excelsior con i costumi da bagno Cole of California. Al Lido era attraccato il Miami, il motoscafo dei Marzotto, 16 metri, sembrava una nave. I fratelli Vittorio, Umberto, Giannino e Paolo erano soprannominati “i conti correnti”, un doppio senso legato alla situazione patrimoniale e alla passione per le gare automobilistiche. Umberto m’invitò a fare un giro in laguna sul motoscafo».

Due anni dopo, il 18 dicembre 1954, erano marito e moglie. «Papà non volle presenziare al matrimonio: temeva di sentirsi fuori posto. Le nozze furono celebrate dal confessore di Umberto, don Giusto Pancino, il padre spirituale di Edda Mussolini, al quale la figlia del Duce aveva dato l’incarico di portare in Svizzera i diari del marito Galeazzo Ciano, fucilato a Verona. Andammo a vivere a Portogruaro, nel palazzo cinquecentesco che mio suocero aveva acquistato dagli Stucky, 7.000 metri quadrati».

Un giornale sintetizzò il suo riscatto sociale con un titolo atroce: «Dal casello al castello». Lei ce la metteva tutta per diventare una moglie borghese. Ma non ci riusciva. «Una volta andai a un ricevimento con un vestito di Balenciaga che mi lasciava scoperta parte della schiena. Fui presentata al cardinale Angelo Roncalli, patriarca di Venezia. Per l’imbarazzo, dopo il bacio dell’anello indietreggiai senza voltargli le spalle. “Imiti i gamberi?”, sibilarono due befane presenti per mettermi a disagio. Io arrossii. Allora il futuro Giovanni XXIII mi fece cenno di sedermi accanto a lui e mi prese la mano: “Ma che bella ragazza sportiva! Brava, brava. Avrà dei bellissimi bambini”. Aveva ragione. Nei successivi 15 anni nacquero Paola, Annalisa, Vittorio, Diamante e Matteo».

Marta Vacondio parlava di Gaetano Marzotto con affetto traboccante. «Per lui la famiglia era sacra. A Cortina organizzai una cena con Indro Montanelli. Al termine il giornalista si congedò con una frase infelice: “Se mai Umberto litigasse con Marta, me la sposerei io”. Mio suocero andò su tutte le furie: “La fameia no’ se toca!”. E da quel giorno tolse il saluto a Montanelli. Più che un capitano d’industria, si sentiva un patriarca biblico. Sosteneva che i Marzotto discendevano da Marzuk, un soldato turco fermatosi in Veneto dopo l’assedio di Vienna».

Guttuso, Magri, Pertini, Montanelli non furono gli unici a infatuarsi di lei. «Ricevevo messaggi d’amore da molti ammiratori. Una volta Umberto ordinò un’indagine e scoprì che alcuni me li spediva un operaio ventenne della Marzotto. Il caporeparto convocò il giovanotto: “Ma sei impazzito? È la moglie del padrone!”. E quello rispose: “Vi siete comprati le mie braccia, non il mio cuore”. Gli fu conservato il posto, si sposò e gli feci il regalo di nozze. A Natale mi mandava sempre una cartolina».

Marta Vacondio ha avuto una vita sregolata e giuliva, segnata nel 1989 da un’immensa tragedia: la morte della figlia Annalisa, consumata dalla fibrosi cistica a soli 32 anni. «Di Annalisa non chiedermi nulla, ti prego», m’implorò durante l’intervista. «Non posso proprio parlarne, perché ogni volta mi metto a piangere». E pianse.

Si faceva chiamare Marzotto, senza accorgersi di quanto fosse stupendo il cognome da nubile, tipico dei trovatelli, che il destino le aveva assegnato. Va’ con Dio, Marta. Ora la tua Annalisa puoi vederla.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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