<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

Loro si tatuano,
voi pagate le cure

David Beckam
David Beckam
David Beckam
David Beckam

(...) trapiantato a Milano e pubblica la foto atterrita di una micia con un anello al naso, e annuncia trionfante: «Ce lo fatto il septum alla piccola Tekla. Non si voleva far prendere ma poi ce lo fatta» (ma studia, ’gnurant!), e reclamizza: «Faccio piercing ai gatti mi sto specializzando. Tutto pulito e igienizzato prezzi bassi».

Sono quasi 7 milioni gli italiani che si sono lasciati decorare, incidere, colorare, bucare l’organo più esteso del corpo umano, la pelle (circa 2 metri quadrati nell’individuo adulto). Il 12,8 per cento della popolazione. Lo attesta un’indagine dell’Istituto superiore di sanità, dalla quale emerge che il 7,7 per cento di costoro sono minorenni. In teoria i ragazzini potrebbero sottoporsi a queste pratiche invasive solo con l’autorizzazione dei genitori. In realtà il 22 per cento non firma il consenso informato. Le leggi, com’è noto, in questo Paese sono stati d’animo: dipendono dall’umore di giornata.

Sempre secondo i dati dell’Iss, il 3,3 per cento dei tatuati dichiara di aver avuto complicanze: dolore, granulomi, ispessimento della pelle, reazioni allergiche, infezioni, pus. «Ma il dato appare sottostimato», avvertono gli esperti del ministero della Salute. Non basta: 1,2 milioni di persone si dichiarano pentite e vorrebbero cancellare la dermopigmentazione. Quasi 52.000 di esse lo hanno già fatto.

Prima domanda: quante infezioni, reazioni allergiche, herpes o epatiti da tatuaggio vengono curate negli ospedali italiani? L’Iss non lo rivela. Seconda domanda: perché con le mie tasse devo sostenere le spese sanitarie per rimettere in sesto queste legioni di autolesionisti volontari?

È lo stesso quesito che posi a Girolamo Sirchia, all’epoca ministro della Salute, a proposito della battaglia delle arance che a ogni carnevale, con un pretesto storico, si combatte a Ivrea: vince chi mette fuori gioco il maggior numero di avversari, tirandogli in faccia gli agrumi. A parte lo spreco immondo di frutta, da un mio calcolo risultava che in un decennio la gara avesse provocato 4.365 feriti, con un record di 818 nell’ultimo anno considerato. Figurarsi se Sirchia, che pure è un medico, poteva essere sensibile ai traumi oculari e cranici. L’unico riscontro fu un insulto - badòla, stupido - di un lettore piemontese inviperito. Eh sì, perché chi gode nel farsi male non è contento finché non arreca offesa anche agli altri.

Il giro d’affari di tatuaggi e piercing vale circa 100 milioni di euro l’anno, che fanno pur sempre 193 miliardi di vecchie lire. E lo Stato, anziché disincentivare la moda dissennata, si limita a registrarne la ricaduta economica sul portafoglio degli italiani, senza nemmeno rendersi conto che questo atteggiamento notarile equivale a una precisa scelta pedagogica. Così il costo dei tatuaggi è finito addirittura fra le voci del paniere Istat 2016 per il calcolo dell’inflazione, lo stesso che nel decennio 1928-1938, con sommo rispetto per le famiglie degli operai, contemplava invece il pane, la pasta, il riso, lo zucchero, la farina gialla, il burro, lo strutto, i fagioli secchi, il baccalà, l’olio di ricino, le uova, il caffè tostato, il cremor di tartaro, il canone di affitto, la legna da ardere, i giornali, i libri, le matite, l’inchiostro nero e le visite mediche a domicilio.

Non escludo che il mio atteggiamento da ayatollah possa essere determinato da un trauma infantile: mia madre che si fa bucare i lobi degli orecchi per infilarci due pendenti di bigiotteria. Povera donna, e dire che le stavano pure bene. Gli orecchini, intendo, non i fori.

Però mi pare che oggi siano stati ampiamente oltrepassati i confini dell’autolesionismo innocente: oltre al tatuaggio e al piercing, sulla pelle dei nostri figli impazzano il cutting (tagliuzzamenti con lamette, coltelli, forbicine, cocci di vetro, chiodi), il burning (bruciature di sigarette), il branding (marchi a fuoco con un ferro rovente).

Spiegano gli psicologi che sono tutte espressioni dell’impossibilità di essere belli e felici in questa epoca squilibrata che, dismesso il cervello, ha elevato il corpo a divinità degna di culto. Ed ecco allora scattare negli adolescenti, ma anche negli adulti, il bisogno di modificarlo perché non si accetta che esso sia così com’è. La sindrome della bruttezza immotivata.

Ma entra in gioco anche l’emulazione. Non c’è Vip che non sfoggi un qualche motivo ornamentale sulla cute. Avendo già mostrato tutto quello che c’era da vedere, Belén Rodríguez fu costretta ad affidarsi a una farfallina impressa in zona pubica per attirare l’attenzione al Festival di Sanremo del 2012.

E pensare che una volta si facevano tatuare solo i marinai negli angiporti e i criminali nelle galere. Infatti ricordo che Gianni Cantù, irripetibile prototipo dei cronisti di nera, arrivò sulla scena di un delitto e, siccome i carabinieri non riuscivano a identificare il bandito probabilmente fatto fuori dai suoi stessi complici, torse il braccio della salma, indurita dal rigor mortis, onde permettere al fotoreporter Costantino Fadda di riprendere un tatuaggio sul polso che consentì di dare un nome alla vittima.

Ho avuto modo di conoscere Anna Maria Casadei, diplomata in psicografologia, che ha studiato la scrittura alla scuola di padre Girolamo Moretti (1879-1963), il francescano considerato inventore della moderna grafologia. È autrice di un libro, Psicologia del tatuaggio, in cui decritta le epidermidi cesellate. «Lo psicoanalista Carl Gustav Jung sosteneva che ogni simbolo è in definitiva un corpo vivente», mi ha spiegato. «Fin dal V secolo avanti Cristo, come testimonia la mummia di uno sciita ritrovata in Siberia, gli uomini hanno avvertito questa necessità di comunicare attraverso segni indelebili incisi sulla loro pelle. Con l’ausilio della simbologia dall’epoca paleocristiana fino al Medioevo, li ho analizzati, a partire dalla loro posizione nelle varie regioni del corpo».

Le conclusioni cui l’esperta è arrivata non faranno contenti i francobolli umani ricoperti di timbri: «Un tatuaggio sugli arti superiori indica nervosismo e indecisione; sugli arti inferiori, infantilismo e irriflessione; sulla caviglia della donna, sospettosità, gelosia; sulla caviglia dell’uomo, ipercriticità e competitività. Un tatuaggio sul braccio destro, coraggio, giustizia e propensione al comando; sul braccio sinistro, l’esatto contrario. Un tatuaggio fra un dito e l’altro, idee chiare, intraprendenza ma poco senso pratico negli affari, inclusi quelli di cuore. Il soggetto più riprodotto è il drago. Sottintende avidità e falsità, ma anche perfezione. Dipende però se è stato fatto prima o dopo altri tatuaggi. Se anteriore, denuncia pessimismo. Se posteriore, possessività e scaltrezza; nel caso di un genitore, distacco dal ruolo». Da sottolineare che i connotati negativi prevalgono su quelli positivi.

Nel Far West si marchiava a fuoco solo il bestiame per impedire l’abigeato. Persino per i cani, che in passato venivano tatuati, oggi si preferisce il più civile microchip. Se poi si guarda alla storia, la pratica suscita raccapriccio. I Romani tatuavano con un numero gli schiavi. I neri costretti a sderenarsi nelle piantagioni di cotone americane conservavano sulla pelle il cognome del padrone che li aveva comprati per primo. Infine arrivarono i nazisti con il numero di matricola inciso sulle braccia degli ebrei nei lager. Tanto basterebbe per astenersi dall’abbruttimento del corpo.

Ma allora perché nell’odierna civiltà si perpetua questo tristissimo esercizio? «È il modo più semplice e diretto di comunicare in un’epoca in cui le persone non riescono ad avvicinarsi in altra maniera», ha concluso Anna Maria Casadei. «Nella rarefazione dei contatti corporei, surrogati da Facebook, una ragazza gira intorno al corpo di un ragazzo, o viceversa, lo scruta, lo esamina, solo prendendo spunto da un tatuaggio».

Carl Friedrich von Weizsäcker, il fisico tedesco che dallo studio dell’atomo e degli astri era pervenuto alla filosofia, sosteneva che il corpo e l’anima non rappresentano due diverse sostanze, ma una sola, e che sono gli uomini a considerarli in modi differenti. Maltrattiamo il primo perché non crediamo più nella seconda, ecco tutto.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

Suggerimenti