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La nuova dolce
vita di Lele Mora

Lele Mora fotografato sul “Corriere della Sera” mentre ritira le giacenze di frutta da destinare poi ai poveri di Milano
Lele Mora fotografato sul “Corriere della Sera” mentre ritira le giacenze di frutta da destinare poi ai poveri di Milano
Lele Mora fotografato sul “Corriere della Sera” mentre ritira le giacenze di frutta da destinare poi ai poveri di Milano
Lele Mora fotografato sul “Corriere della Sera” mentre ritira le giacenze di frutta da destinare poi ai poveri di Milano

(...) dal monogramma LM sulla coda, valore 1,8 milioni di dollari, acquistato in leasing «per scarrozzare, comodi comodi, starlet e tronisti», poi rimasto abbandonato per insolvenza sulla pista di Linate e infine svenduto a soli 60.962 euro da una società del gruppo Ubi banca? Lui. Lo stesso che era riuscito a riunire sotto il suo tetto in Costa Smeralda, in un abbraccio fraterno, il petto villoso di Giampiero Fiorani, il banchiere degli scandali Parmalat e Popolare di Lodi, con quello depilato di Costantino Vitagliano, la creatura di Maria De Filippi, il nerboruto protagonista di Uomini e donne? Lui.

Datemi pure del matto, ma che finiva con un pentimento lo sapevo da 27 anni, dal nostro primo incontro (ne sarebbe seguito soltanto un altro). Anzi, ora che ci ripenso, i contatti con Mora in realtà sono stati tre. Il primo avvenne nello studio del suo avvocato a Verona, perché giustamente ci teneva a cautelarsi. Già lì colsi nella sua faccia, mezza da budda e mezza da formaggiaio, un candore primigenio e sconsiderato: a chi mai sarebbe passato per la testa, per quanto esibizionista, di lasciarsi intervistare nelle vesti di spacciatore?

La Domenica del Corriere aveva appena chiuso, però la guerra diffusionale di Marcello Minerbi sarebbe presto proseguita con altri mezzi: Visto. Dunque il direttore venne apposta con la sua Porsche fino a Valeggio sul Mincio - era estate - per chiedere al suo collaboratore di cercargli uno scoop da piazzare in copertina nel numero di esordio, programmato per l’autunno. Attovagliati lungo il fiume all’Antica locanda Mincio di Borghetto, dove Luchino Visconti girò Senso e Indro Montanelli fu affrescato sui muri nelle vesti di Virgilio durante le sue innumerevoli tappe tortellinesche lungo l’asse Milano-Cortina, mi balenò l’idea: Lele Mora, il parrucchiere (ma guai a chiamarlo così, non ha mai tagliato capelli in vita sua) ammalato di pubbliche relazioni, che aveva rallegrato con la cocaina, fornita dal cognato Pietro Bologna, narcotrafficante originario di Capaci (Palermo), le notti brave di calciatori, attori e cantanti.

Sono dunque in parte responsabile della megalomania che ha condotto alla rovina il Lele (lo chiamava così sua madre, storpiandogli il secondo nome di battesimo, Gabriele). «Lei fu il primo a intervistarmi su un settimanale nazionale, ricorda?», ha fatto appello alla mia memoria nel nostro terzo incontro, un’intervista per Panorama. Come no, ricordavo perfettamente persino la data, 2 novembre 1989, assai poco benaugurante per un settimanale appena nato. «Droga. Scandalo a Verona. C’è dentro anche l’amico di Maradona», strillava la copertina di Visto. Foto di Mora con un braccio appoggiato sulla spalla del campione argentino tracagnotto. L’avevano ribattezzato «il processo per la coca dei Vip». Prosciolta Patty Pravo: la droga era per uso personale. Nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, la cantante telefonava dalla casa di Mora, che all’epoca abitava a Madonna di Prabiano, frazione di Villafranca, sollecitandogli «un po’ di roba pesante», come annotato dai carabinieri in ascolto l’ultimo dell’anno del 1988, alle 16.52. Bisogna pure far baldoria, la notte di San Silvestro.

Ma nel villino senza pretese Mora ospitava spesso anche Loredana Bertè, fresca di matrimonio con il tennista Björn Borg; Pierre Cosso, il protagonista del Tempo delle mele; il figlio di Alain Delon, Anthony; Clayton Norcross, il Thorne di Beautiful. La sexy girl Giannina Facio - qualcuno se la ricorda? - l’aveva addirittura eletto a proprio domicilio fiscale.

Per raccogliere il memoriale chiestomi da Visto, bussai a quella porta. L’intraprendente pi erre venne ad aprirmi a piedi scalzi, gli occhi pesti di chi aveva fatto le ore piccole. Si sedette per terra, su un cuscino. Non disponendo ancora, all’epoca, di aitanti massoterapisti, continuò a massaggiarsi da solo i piedi nudi per tutto il tempo dell’intervista. Intorno, abbandonate sul pavimento, decine di stoviglie unte e bottiglie vuote, testimonianze di bagordi che la sera prima dovevano aver coinvolto almeno una trentina di commensali. E del resto è così che Mora, nato a Bagnolo di Po (Rovigo) il 31 marzo 1955, dopo un rodaggio di fatica nella stalla paterna riscattato da un diploma all’istituto alberghiero, è diventato uomo di mondo: come cuoco. Soddisfaceva l’esclusiva clientela del ristorante Pedavena affacciato sul Liston. Abbandonati i fornelli, si mise in società con il parrucchiere Pasquale Sciscenti, titolare di un salone nei paraggi dello stadio Bentegodi, il primo beauty center aperto a Verona, meta di calciatori e showgirl d’accompagno, bisognosi di massaggi, mèche e dorature ai raggi ultravioletti. Seguirono altri due locali simili, perché gli affari andavano a gonfie vele nell’Italia che aveva smesso di essere per limitarsi ad apparire.

Nella casa di Mora quella mattina stagnava aroma d’incenso più che nella navata di un’antica cattedrale. «Mi piace sentire odore di chiesa», quasi si scusò. Non mi ero ingannato. C’era in lui qualcosa di atavico che resisteva sotto un’insopportabile scorza di vacuità e bricconeria. Sul camino troneggiava una statua della Vergine. Mi confessò che con la Facio andava in pellegrinaggio nei santuari mariani del Veneto. «Resto molto legato a quello della Madonna del Pilastrello di Lendinara, vicino a dove sono nato», mi confessò. «Ci sono tornato appena mi hanno scarcerato», mi ha ripetuto l’ultima volta che l’ho intervistato.

Libero per grazia ricevuta. Quattro anni e 3 mesi patteggiati per bancarotta fraudolenta; un’imputazione per sfruttamento della prostituzione nel processo Ruby; 408 giorni trascorsi in isolamento nel carcere di Opera, lo stesso in cui era detenuto il suo conterraneo Pietro Maso, il massacratore dei genitori. «In cella leggevo le Sacre Scritture e i libri di Giampaolo Pansa», mi ha confidato. «La Bibbia l’ho sempre avuta fra le mani. Prima, durante e dopo. L’avrò riletta 100 volte. Sono cattolico, anche se perdo qualche messa festiva. Fosse dipeso da me, sarei corso a ringraziare la Madonna a Fatima o a Medjugorje, ma ho il divieto di espatrio. Mi spiace, perché tutti gli anni accompagnavo i malati a Lourdes come barelliere». D’altronde ha studiato dalle suore francescane angeline e da adolescente aveva persino meditato di entrare in convento per diventare frate.

Del suo primo giorno da detenuto non ricorda nulla, solo che gli si appannò la vista. Pesava 118 chili, ne ha lasciati 50 in carcere. Teme più della morte di doverci ritornare. È in cura per la depressione. «Sono rimasto 13 mesi da solo in un loculo di cemento armato, con oltre 40 gradi d’estate, senza nemmeno un ventilatore», mi ha raccontato. «Non avendo il fornelletto per cucinare, dovevo mangiare tonno Rio Mare in buste. Frutta e verdura refrigerate nel lavandino in cui mi lavavo. Ma il peggio è stato l’inverno: la finestra con le doppie sbarre era priva di vetri, perché avrei potuto utilizzarli per atti autolesionistici. Temperature vicine allo zero. C’è voluto un certificato dello psichiatra per ottenere un piumone». E un tentativo di suicidio. «Alle 12, durante il cambio della guardia, staccai alcuni pezzi di cerotto che tenevano insieme l’abat-jour della cella e me li applicai su naso e bocca. Altri strumenti per ammazzarmi non ne avevo. Mi risvegliai in infermeria alle 18 con un vuoto di memoria».

Il direttore del carcere di Opera gli concesse allora di trasformare una discarica in orto. «Le sementi me le spedivano per posta i miei figli. Siccome non potevo avere il concime dall’esterno, chiesi l’autorizzazione a tenere 20 quaglie in gabbia. Mi arrangiavo con le loro deiezioni. Rifornivo gratis di pomodori, melanzane, peperoni e zucchine tutte le celle».

Mi dicono che si fa ancora scarrozzare su un Suv dorato. Eppure nel Lele Mora che va a ritirare gli scarti ortofrutticoli per i poveri vedo molto del Lele Mora di 27 anni fa: capace di grandi errori, però incapace di convertirsi definitivamente al male. L’esatto contrario del suo amico Fabrizio Corona. Perché hanno questo di buono le persone che al fondo restano buone: possono sbagliare, anche in modo irreparabile, ma, così come si sono lasciate affascinare dal male con totale trasporto, con altrettanto totale trasporto possono risolversi a convertirsi di nuovo al bene. Dà una speranza anche a noi.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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