<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

L’industria più
fiorente: il falso

Il professor Salvatore Casillo, fondatore del Centro studi sul falso, mostra due prodotti contraffatti. Dura scoprire le differenze dall’originale
Il professor Salvatore Casillo, fondatore del Centro studi sul falso, mostra due prodotti contraffatti. Dura scoprire le differenze dall’originale
Il professor Salvatore Casillo, fondatore del Centro studi sul falso, mostra due prodotti contraffatti. Dura scoprire le differenze dall’originale
Il professor Salvatore Casillo, fondatore del Centro studi sul falso, mostra due prodotti contraffatti. Dura scoprire le differenze dall’originale

(...) e del responsabile della società che distribuisce in Italia i cronografi Iwc, Montblanc e Panerai. Alla fine il giudice ha stabilito che neppure il più cretino dei clienti poteva illudersi di acquistare un vero Rolex per una manciata di euro. Ergo, il prezzo fa la differenza: se spendi poco, l’ambulante abusivo non commette reato.

La stravagante sentenza mi ha richiamato alla memoria il precursore di questo genere di giurisprudenza creativa, Gennaro Francione, con il quale una quindicina d’anni fa intrattenni rapporti telefonici ed epistolari prima di mandarlo a quel paese: per lasciarsi intervistare pretendeva infatti che nella stessa pagina di giornale apparisse «la pubblicità al romanzo Domineddracula che è uscito in questi giorni, riportando la copertina o quantomeno il contenuto della quarta di copertina». Chiamalo scemo.

Dopo aver pubblicato l’opera sullodata, il giudice Francione, che si definisce «poliedrico artista ed eclettico operatore culturale» nonché scrittore, pittore patafisico e compositore di musica classica e folk, ha dato alle stampe anche lo Schiattamoriendi, «metafore della Vita-Cacca e della Morte-che-fa-ridere», e il De Merda, «un tentativo di riconsiderare e rimuovere le tante cose sporche che intristiscono il nostro vivere» e persegue l’alato obiettivo con il seguente Epigramma scoreggione: «Alla poetessa Milli scappa un crepito / e, volendo far crederlo rumore / della seggiola, prende a far screpito / cullandosi sovr’essa in gran furore; / ma non fa botto come quel di prima / né può al crepito suo trovar la rima».

Prima di essere promosso consigliere della Corte di cassazione, Francione, all’epoca giudice presso il tribunale penale di Roma, aveva assolto quattro extracomunitari che smerciavano cd-rom contraffatti. Con la seguente motivazione: «Non c’è fine di lucro illecito “penalmente” in chi venda per strada cd a prezzo ridotto (in linea con la new economy) al fine di procurarsi da mangiare, con azione accettata e condivisa dalla maggioranza del consesso sociale».

Il fatto che sulla merce venduta in nero vengano evase le tasse e frodati i diritti d’autore è da considerarsi, nella logica del magistrato poeta, del tutto accidentale. D’altronde il consigliere di Cassazione è stato anche ispiratore di «un sistema cognitivo emblematico, che nomina di “antropodiritto interdisciplinare”, dove ricorre ai metodi interpretativi più disparati, storici, scientifici, mitici, religiosi, e finanche misterici». Chi ha detto che la riforma della giustizia non si può fare?

Ho avuto il privilegio di conoscere il più intrepido nemico dei falsari. Si chiamava Giorgio Faccioli. Abitava a Villa Impero, sulle colline di Bologna. Con la sua Ritz Saddler, a partire dagli anni Cinquanta aveva scoperto, importato e imposto in Italia vari marchi famosi: Clarks, Ballantyne, Louis Vuitton, Allen Edmonds, Eminence, Ralph Lauren, McDouglas, American, Catalina. Quando negli anni Ottanta si presentò nel New Hampshire per chiedere a Sydney Swartz, presidente della Timberland, di vendergli un centinaio di paia delle sue calzature, costui voleva rifiutarsi di consegnargliele: «Lei è pazzo. Come può pensare di vendere queste scarpe da boscaiolo nel Paese di Ferragamo, di Gucci, dei Fratelli Rossetti?». Ma Faccioli aveva una sua tecnica infallibile, che mi svelò: «Individuo un capo di abbigliamento o un accessorio eccentrico, quasi brutto, però molto riconoscibile. Lo regalo a personaggi famosi pregandoli di indossarlo. Lo metto in vendita a un prezzo stratosferico. E nel giro di pochi mesi diventa uno status symbol». Per le Timberland andò esattamente così: dopo averle viste ai piedi di Gianni Agnelli, Enzo Biagi e Luca Cordero di Montezemolo, tutti le volevano. Le scarpacce da taglialegna entrarono a far parte dell’uniforme d’ordinanza dei paninari, i giovani consumisti milanesi di buona famiglia che si rimpinzavano di hamburger in zona San Babila e si vestivano solo con capi griffati.

Trent’anni fa Faccioli mi capitò in redazione all’Arena con una ghiotta notizia: «Ho denunciato alla magistratura un calzaturificio di Pastrengo che in quattro e quattr’otto ha inalberato l’insegna Timbelbrenn e vende per corrispondenza imitazioni delle mie Timberland». Ci facemmo un’inchiesta, svelando il grossolano inganno. Nel giro di pochi mesi l’attività truffaldina chiuse i battenti. Nel frattempo però erano spuntati come funghi anche Timberman, Tamberland, Timberlein, Limberman, Limberland, Quimberland, Forestland, Cumberland, Finterland. Una saga del prêt-à-copier, come la chiamava lui, che gli aveva già provocato danni per oltre 170 miliardi di lire (con la rivalutazione monetaria, oggi sarebbero oltre 200 milioni di euro).

A volte m’è capitato d’ingaggiare qualche solitario duello personale con i contraffattori. Un mio collega, che oggi lavora a Milano, mi confidò che comprava le cravatte fasulle di Hermès in una sorta di boutique domestica ubicata al primo piano di un palazzo del centro. Informai la maison parigina, che spedì a Verona il direttore della filiale italiana, accompagnato dall’addetta stampa, Francesca di Carrobio. I due andarono a controllare. Erano sbalorditi: persino loro avevano faticato a distinguere dagli originali cravatte e foulard farlocchi. La missione da 007 portò fortuna alla signora di Carrobio, che in capo a pochi anni diventò amministratore delegato di Hermès per Italia, Grecia e Turchia.

Ma questo è nulla a confronto di ciò che vidi nell’ufficio del professor Salvatore Casillo, ordinario di sociologia industriale all’Università di Salerno, direttore del Centro studi sul falso: champagne Moët & Chandon imbottigliato ad Avellino; soprabiti Burberry’s confezionati in Puglia; caffè Kimbo torrefatto alle falde del Vesuvio; brandy Napoleon distillato a San Giuseppe Vesuviano; rasoi Bic prodotti a Ottaviano; cosmetici L’Oréal provenienti da Reggio Emilia anziché da Parigi.

Il docente universitario mi esibì anche un vasto campionario di farmaci taroccati (Zantac, Tenormin, Adalat, Capoten, Tagamet) e falsi libretti dell’Inps: chi li possedeva poteva dimostrare di avere un reddito mensile di cui in realtà non disponeva e così riusciva a pagare a rate gli acquisti.

Non parliamo delle sofisticazioni alimentari. Il professor Casillo mi mostrò pasta contenente ceneri, polvere di ossa calcinate, carotene, ormotene, curcuma e bicarbonato di sodio; olio extra vergine di oliva (tale solo per l’etichetta) ricavato da olio di semi colorato con clorofilla o betacarotene, da olio di nocciola turco, da olio di palma indonesiano; burro colorato con il giallo Somalia (aminoazobenzene) per farlo sembrare di montagna.

La Pedrollo di San Bonifacio, leader mondiale nella produzione di elettropompe per l’estrazione dell’acqua, vanta il poco invidiabile primato di azienda più copiata del pianeta. Il suo fondatore, Silvano Pedrollo, mi ha spiegato che i contraffattori gli fregano il 40 per cento del fatturato, qualcosa come 60 milioni di euro l’anno. I più accaniti sono i cinesi, che creano imitazioni a getto continuo: Pedrolloo, Pedrolo, Pierollo, Petrollo, Pedroso, Pedrolla, Petrolla, Peddrola, Pedrolle, Pedro, Pero, solo per citare le più comuni. Ogni innovazione viene copiata nel giro di tre mesi e l’azienda veronese deve ricominciare daccapo, inventandosi qualcos’altro.

«Vendono le brutte copie dei nostri prodotti a un prezzo che a noi non consentirebbe neppure l’acquisto della materia prima per farli», mi ha raccontato l’ingegner Pedrollo. «Il sindaco di Qingdao, un’ex colonia tedesca che fa quasi 4 milioni di abitanti, mi ha proposto: “Se porta la produzione qui da noi, blocchiamo le contraffazioni”. Allora è un ricatto, gli ho risposto. E lui ha ammesso che oltre 100 milioni di suoi connazionali sono dediti all’industria del falso».

L’imprenditore veronese ha provato a far causa al governo di Pechino. «A un certo punto l’avvocato di Shanghai che mi assisteva in giudizio mi ha detto: “Pedrollo, ma è sicuro di poter vincere contro lo Stato cinese con giudici cinesi pagati dallo Stato cinese?”. Ho preferito lasciar perdere».

Dopo l’assoluzione del vu’ cumprà senegalese a Venezia, fa piacere scoprire che, almeno in fatto di magistratura, il gemellaggio con la Cina di Marco Polo resiste alla grande.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

Suggerimenti