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Il lungo silenzio
di Gianni Zonin

Gianni Zonin con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la visita a Vicenza nel 2008
Gianni Zonin con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la visita a Vicenza nel 2008
Gianni Zonin con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la visita a Vicenza nel 2008
Gianni Zonin con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante la visita a Vicenza nel 2008

Dottor Zonin, parli, dica qualcosa, qualunque cosa. Si difenda, accidenti. Ma come fa, in nome del cielo, a starsene zitto da 320 giorni, sebbene «per rispetto delle indagini dell'autorità giudiziaria e degli organismi di vigilanza», secondo l'aurea formula usata dai suoi avvocati? Sì, è passato quasi un anno da quel 23 novembre 2015, quando fu costretto a lasciare il trono sul quale stava assiso dal 1996. Non ha proprio nulla da dire sulla catastrofe della sua banca? Come vede, l'aggettivo possessivo non l'ho nemmeno racchiuso fra virgolette. Perché la Banca popolare di Vicenza era davvero sua.O forse era di Gianni Zonin l'intera città. Mi assicuravano che lei avesse persino diritto di veto sulla nomina dei primari ospedalieri, tanto che una volta mi risolsi a segnalargliene uno bravissimo, su pressante richiesta dell'interessato. Costui non se la sentiva di partecipare a un concorso perché gli avevano spiegato che, senza il placet di Zonin, non sarebbe mai passato. Essendo già direttore di una divisione ospedaliera, quel chirurgo sarebbe probabilmente uscito vincitore dal concorso per titoli ed esami. Invece alla fine preferì astenersi. Non era sicuro della sua benevolenza, pensi un po’.

Ma come? Lei era il dio di Vicenza. E che fa? La abbandona nel momento del bisogno, si ritira a vivere in un castello in Friuli protetto dalle telecamere e dai carabinieri (l’ho letto sulla Repubblica), ha il coraggio di andarsene in vacanza in Sicilia con la sua gentile consorte e si scoccia se qualcuno tenta di avvicinarvi. Che cosa si aspettava? Di passare inosservato?

«El capitan xe el cor de la nave», era scolpito nel legno delle galee veneziane. Lei si dimostra un pessimo figlio della Serenissima. Questa regione le dovrebbe revocare seduta stante il diritto a fregiarsi del leone alato di San Marco sulle etichette delle sue bottiglie. «El capitan» non abbandona mai la nave. Mette in salvo passeggeri ed equipaggio e poi cola a picco con essa, semmai, soprattutto qualora si ritenga responsabile del naufragio.

Lei invece ha abbandonato la nave, Vicenza, un attimo prima che affondasse, come un comandante Schettino qualsiasi. I giornali hanno scritto che avrebbe dimostrato un unico ardimento: quello di riscuotere, benché indagato per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, gli emolumenti che le spettavano per l’ultimo anno da presidente, 1 milione di euro, per la precisione 1.011.917 lordi, leggo nella relazione dell’assemblea dei soci. Mi dica che non è così. Parli, la prego.

Ritiene di non avere colpe nell’affondamento? I sabotatori sono altri? Sono molto contento per lei, anche se ho sempre presente una frase che mi disse Enzo Biagi: «Una foglia non può diventare gialla senza che lo sappia tutto l’albero». Ma allora ci spieghi chi, come e perché ha mandato a sbattere lo sfolgorante vascello sulla cui tolda per più di 30 anni l’ammiraglio riverito e incontrastato si chiamava Zonin. Siamo pronti a tutto. Purché non dia la colpa al cambusiere.

Qualche settimana fa, una commerciante che ha un negozio ad Asiago mi ha raccontato che il suo conto corrente presso la Bpvi era andato in rosso di 8 euro. Ripeto: 8 euro. Ebbene, il direttore della filiale, che pure è suo amico, le ha telefonato tre volte, diconsi tre, invitandola perentoriamente a «rientrare». Si rende conto? Per 8 euro! Non le piange il cuore, dottor Zonin?

Permetta dunque che sia io a rompere il suo assordante silenzio. Ci conosciamo, sia pure molto superficialmente, dal lontano 1995, quando venni a intervistarla per il mensile Capital nella sua azienda di Gambellara. Era appena tornato dalla Cina, dove progettava di rimettere in produzione gli antichi vitigni piantati dai padri verbiti nella provincia dello Shandong, terra natale di Confucio. «Dovrebbe vedere i pali nei vigneti. Sono di granito! I missionari li scalpellarono via a uno a uno dalla roccia viva», mi raccontò infervorato.

Che storia, quella di Gianni Zonin. In azienda da sempre, presidente fin dal 1967, a soli 29 anni. Un sintomo di smisurata ambizione. Ma anche di attaccamento al podere: è venuto al mondo lì, in via Borgolecco, vale a dire in cantina, il 15 gennaio 1938. Primogenito di otto fratelli, a 5 anni il piccolo Gianni fa l’incontro che impronterà tutta la sua vita. È a quell’età che i genitori lo mandano ad allietare la casa dello zio Domenico, sposato ma senza figli. Sarà un’impareggiabile scuola di vita. «Parlava soltanto di lavoro», così me lo descrisse il nipote.

Sempre a 5 anni, Zonin comincia la scuola elementare. Tipo precoce. A 10 lo mettono in collegio dai salesiani, al Manfredini di Este. Eccelle nelle materie umanistiche. I suoi lo vedono avvocato. È già iscritto al liceo classico Maffei di Verona quando irrompe sulla scena lo zietto: «Macché latinorum! El toso gà da mandare avanti la cantina». E lo dirotta all’Istituto per l’enologia di Conegliano, dove il giovanotto si diploma con lode.

Il giorno dopo è al lavoro. Da quel momento, sarà un’ascesa inarrestabile. Studiando di notte, si laurea in giurisprudenza. Fissa il suo principio ispiratore: «I vigneti sotto i 100 ettari non m’interessano». Pensa in grande, compra in grande. Tenute ovunque: a Cervignano del Friuli; a Zenevredo, nell’Oltrepo’ Pavese; a Portacomaro d’Asti; a Radda in Chianti; a San Gimignano; in Puglia; in Sicilia. Arriva a stipulare ben 78 atti notarili pur di riunificare la proprietà spezzettata di Castello del Poggio in Piemonte. Il suo disegno di grandezza non conosce inciampi. Nel 1975 acquista una tenuta di 400 ettari a Barboursville, negli Stati Uniti. Si compra una Chevrolet nera per girare nella città della Virginia, ma dopo qualche giorno è costretto a venderla perché in città la chiamavano «mafia car», come mi rivelò nel corso di una seconda intervista.

Da allora, ho avuto solo altri tre contatti con Zonin. Il primo fu telefonico per perorare la causa di un’anziana signora miracolata a Lourdes, che si era rivolta a me in lacrime perché la Banca popolare di Vicenza aveva chiuso i rubinetti alla figlia, oppressa da gravi difficoltà economiche. Pensando che i giornalisti possano tutto, la poveretta m’implorava di farle ottenere una dilazione nelle rate del mutuo. Pochi soldi. Esposi il caso al presidente della Bpvi. Ascoltò. Non pronunciò una sola parola di commento, né mi fornì alcuna rassicurazione. Volle solo sapere presso quale agenzia fosse aperto il conto dell’indebitata. Dopo pochi giorni, la vecchietta mi telefonò. Piangeva più a dirotto della prima volta. Il direttore della banca aveva sistemato le pendenze. Lei l’aveva interpretata come una seconda grazia concessale dalla Madonna di Lourdes, e forse fu davvero così. Ma la Vergine, almeno in quell’occasione, si era fatta aiutare da Gianni Zonin e io sento il dovere di testimoniarlo.

Il secondo incontro avvenne per un inaspettato invito a pranzo prenatalizio nel quartier generale vicentino dell’istituto di credito. Non capivo che cosa mai avesse da dirmi a tavola il presidente della Bpvi. Infatti non vi era nulla da capire né nulla da dire: solo da mangiare. Semplicemente Zonin mi aveva ammesso a un banchetto con l’intero consiglio d’amministrazione. Tovaglie di fiandra, posateria d’argento, polenta e baccalà. Con mia grande sorpresa mi ritrovai a pasteggiare insieme ad Andrea Monorchio, il Ragioniere generale dello Stato che per quasi tre lustri era stato il più alto contabile della Repubblica, al servizio dei governi Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, D’Alema. Ma che c’entravo io con Monorchio? Non l’ho mai saputo. Di sicuro Monorchio c’entrava qualcosa con Zonin, visto che nel 2014 fu nominato vicepresidente della Bpvi con un appannaggio annuo di 294.700 euro lordi.

L’ultima volta che ho visto il banchiere è stata un anno fa a un convegno del Comitato Leonardo, dov’ero invitato in veste di moderatore. Aveva ricevuto da 23 giorni l’avviso di garanzia e il mese seguente sarebbe decaduto dalla carica. Eppure, fasciato nel suo gessato d’ordinanza, passava disinvolto fra i colleghi imprenditori, da Luisa Todini a Guidalberto Guidi, che lo salutavano con la stessa mestizia del violinista che suonava Nearer, my God, to thee sul ponte del Titanic mentre il transatlantico s’inabissava.

Si ricorda, dottor Zonin, che cosa le insegnò suo zio Domenico, morto a 101 anni? «Va’ piano e fa’ presto». Mi sa che lei non ha ascoltato quel consiglio. Indubitabilmente ha reso grande la Banca popolare di Vicenza, però sarebbe stato meglio se fosse andato più lento: non avrebbe creato il colosso dai piedi d’argilla che è rovinato addosso a migliaia di famiglie, gettandole nella disperazione.

«Un esame di coscienza quando?». Perché non ha raccolto l’esortazione che Ferruccio de Bortoli le ha rivolto sul Corriere della Sera nel luglio scorso? La gente ha il diritto di sapere almeno che cosa le detta la sua coscienza di fronte a 6,5 milioni andati in fumo; ad azioni della Bpvi pagate 62,50 euro e crollate a 10 centesimi; 118.000 soci rovinati; 7.000 di essi che reclamano rimborsi per 620 milioni di euro; 1,4 miliardi persi nel 2015; altri 795 milioni bruciati nei primi sei mesi di quest’anno; 550 dipendenti, forse 1.000, da licenziare; 150 filiali già chiuse. Non ha proprio nulla da dire ai familiari del pensionato Antonio Bedin, suicidatosi perché aveva investito i risparmi di una vita, 500.000 euro, in azioni Bpvi e se n’è ritrovati in mano 800?

Un’ultima cosa lei mi confidò nel nostro primo incontro: «Non dimenticherò mai che a 85 anni mio zio Domenico trovò il coraggio di domandarmi scusa». Faccia lo stesso, dottor Zonin. Trovi quel coraggio. Chieda scusa.

Stefano Lorenzetto

www.stefanolorenzetto.it

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