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L'editoriale

Gli apoti stavolta non hanno ragione

Foto COLORFOTO/FRANCESCO DALLA POZZA
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Uno degli sport più amati dagli italiani è quello di criticare, per usare un eufemismo, i politici. Tutti. Dai più lontani, geograficamente, come i parlamentari a Roma e a Bruxelles, ai più vicini, come i sindaci e i consiglieri comunali. La critica, più che legittima, a chi ci rappresenta nelle varie aule, dal Senato alla sala consiliare, si avvicina però sempre di più all'autocritica, visto che siamo noi che li scegliamo, che li votiamo. Anche per questo si ingrossano sempre di più le fila di quelli che Giuseppe Prezzolini definiva gli apoti, letteralmente quelli che «non se la bevono», quelli che si sottraggono al «tumulto delle forze in gioco per chiarire le idee, per far risaltare i valori, per salvare sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». E che quindi non vanno a votare. Un ideale astrattamente nobile e che ha un certo senso se vale come protesta per le elezioni politiche, visto che i partiti si sono presi tutti i poteri e non lasciano ai cittadini neanche quello di indicare i prescelti. Ma quando si tratta di votare per il sindaco, il politico che ogni cittadino percepisce come il più vicino e diretto rappresentante, l'astensione diventa qualcosa di maledettamente vicino all'autolesionismo. Oggi quasi 150 mila vicentini, della città e di altri nove comuni, hanno in mano la matita copiativa che può decidere del loro futuro amministrativo per i prossimi cinque anni. Mettiamola così: da martedì in avanti avranno il diritto di criticare solo coloro che saranno andati a votare. Gli altri, muti.

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Marino Smiderle

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