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«Prima solo buio e silenzio. Poi vidi cadaveri ovunque»

di Matteo Guarda
Soccorsi. Gli alpini trasportano a spalle i cadaveri
Soccorsi. Gli alpini trasportano a spalle i cadaveri
Soccorsi. Gli alpini trasportano a spalle i cadaveri
Soccorsi. Gli alpini trasportano a spalle i cadaveri

Matteo Guarda Per sessant’anni non se l’era mai sentita di parlarne in pubblico. Finora era riuscito a dire qualcosa soltanto ai propri familiari e a qualche amico fidato. Quello che racconta è la giornata che gli ha cambiato la vita. Si è trovato di fronte a una realtà sconvolgente che è andata ben oltre alla sua capacità di immaginazione. Angelo Turcato, di Sarego, il 9 ottobre del 1963 aveva appena ventidue anni. Alpino di leva a Belluno, faceva parte della compagnia di soccorso. Quella sera il suo raggruppamento venne chiamato d’urgenza. In pochi minuti sulla camionetta e via. «Ci federo prendere lo stretto indispensabile, elmetto in testa e partimmo in una trentina, sapevamo solo che stavano andando dalle parti di Longarone perché era successo qualcosa di molto grave. Ricordo che era abbastanza tardi quella sera», racconta Angelo, che abita nella zona di Meledo Alto. “A un certo punto il nostro camion non riusciva più a stare in strada, così ci ordinarono di proseguire a piedi e ci incolonnammo. Andavamo avanti piano, la carreggiata era piena di pietre e terra fangosa, sempre di più, bisognava stare attenti a non scivolare. Poi, al posto della strada c’era una voragine. Solo in quel momento ci accorgemmo che tutt’intorno non c’era una sola luce e le uniche, fioche, erano le nostre torce elettriche. C’erano oscurità e un grande silenzio, ovunque. Sopra di noi si intravedeva appena la sagoma metallica del ponte ferroviario illuminato dalle pile». Iniziò a delinearsi così quello che già il giorno dopo sarebbe stato chiamato il disastro del Vajont. L’immane tragedia era accaduta da poco ma Angelo e i suoi compagni l’avrebbero saputo più tardi, come l’indomani l’avrebbe saputo l’Italia intera. Alle 22.39 dal monte Toc si staccò un fronte franoso lungo un paio di chilometri e nella diga piena d’acqua vennero giù 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. «Chiesi al capitano se potessimo passare per il ponte. Mi mandò a vedere. Salii e mi accorsi che alcune traversine mancavano mentre i binari erano spostati. Andammo avanti per di lì, poi ci fermammo in un avvallamento. Davanti a noi un muro di sassi, detriti, terra e fango, tralicci. Era difficile passare ancora in quelle condizioni e non mancava molto all’alba, così il capitano ci ordinò di attendere la luce del sole. Dovevamo riposare ma non riuscimmo a dormire, c’era qualcosa che non sapevamo e che ci faceva stare inquieti, nel profondo del nostro animo sapevamo che dovevamo aspettarci ancora qualcos'altro. Alla fine i raggi arrivarono a rischiarare quello che c’era intorno». Quello che Angelo vide al primo bagliore dei raggi del nuovo giorno gli è rimasto impresso per tutta la vita. «Morti dappertutto, morti in mezzo ai detriti, morti che uscivano dal fango, morti a pochi passi da noi. Mi sentii male, rimasi sconvolto. Quel momento durò un tempo indefinito, non capivo più niente, nessuno capiva più niente. Solo più tardi seppi che erano le vittime del Vajont portate a valle e consumate dalla furia dell’acqua e dell’aria. Noi eravamo finiti nel posto dove l’acqua della diga, che era volata in aria, era caduta e se n’era andata, lasciando di tutto. Eravamo come in un grande Ground Zero». L’onda d’acqua generata dall’imponente frana nella diga causò l'inondazione e la distruzione dei paesi del fondovalle, tra cui Longarone, e la morte di 1.917 persone, compresi 487 bambini. Angelo Turcato, con la trentina di compagni, fu tra i primi ad arrivare. “Solo con il lavoro e la fatica riuscii a riavermi e a sopportare. Iniziammo a portar via i morti a mano, spostandoli con la portantina fino a fondovalle. Uno alla volta. Verso mezzogiorno, quando erano ormai arrivati anche molti altri reparti, con le cucine, nessuno volle toccare cibo e andammo avanti fino al pomeriggio, senza sosta. C’erano almeno duecento metri lineari di persone morte messe una accanto all’altra. Di loro solo un paio avevano addosso una scarpa e uno solo un brandello di pantaloni. Tutti erano come senza la pelle e si riusciva a malapena a distinguere chi era uomo e chi era donna. Alle 17 ci rimandarono in caserma». Angelo non è più tornato. «Sono riuscito a tornare a Longarone solo per le celebrazioni del cinquantesimo. La mia storia non l’ho mai raccontata in pubblico». È riuscito a farlo solo sessant’anni dopo, agli alpini di Meledo, alla festa che hanno organizzato per lui domenica 25 febbraio.