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Il racconto dal fronte

«Bruta cosa la guerra bocia, beato ti che non te la vedarè»

In una lettera inviata dall’Afghanistan Matteo aveva descritto lo spirito con cui aveva intrapreso la sua missione di pace
Avamposto Matteo prima di salire su un lince
Avamposto Matteo prima di salire su un lince
Avamposto Matteo prima di salire su un lince
Avamposto Matteo prima di salire su un lince

Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio. Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame. Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella.

Il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere lì per giocare. Non sono lì a caso: hanno quattro, cinque anni, i più grandi al massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, e sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico.

Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...

Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: "Brutta cosa, bocia, beato ti che non te la vedarè mai..." Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, con in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se tu potessi ascoltarmi, ti direi "visto, nonno, che te te si sbaià ".