<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
CONVERSAZIONI 2017. L’intervista al curatore artistico Franco Laera

«Il classico è
lievito per la
creazione»

Da Amsterdam per la prima mondiale di “Octavia Trepanation” all’Olimpico ad ottobre, il direttore parla della stagione: «La scommessa? Ritrovare i giovani»
Franco Laera
Franco Laera
Franco Laera
Franco Laera

In questi giorni è impegnato all’Holland Festival di Amsterdam dove è in programma la prima mondiale di “Octavia. Trepanation”, grandioso spettacolo corale che approderà il prossimo ottobre sulla scena scamozziana. Franco Laera, classe 1948, pugliese, dallo scorso anno curatore artistico della stagione dell’Olimpico - alias “Conversazioni 2017 - ama il vento del cambiamento, le visioni ampie e potenti. «Perché l’arte è forza, energia, preveggenza, mutamento». Non a caso collabora e ha collaborato con autori che hanno messo sottosopra il teatro contemporaneo. Incluso Tadesuz Kantor, una delle menti più geniali della seconda metà del Novecento, del quale è stato a lungo promotore e produttore.La linea telefonica è leggermente disturbata, ma la voce di Laera arriva nitida, sicura, segno di una lunga frequentazione con quel mondo della parola che nei toni, nelle inflessioni, nel gioco dei chiaroscuri custodisce tanta parte della sua magia. Laera, c’ è un’immagine che potrebbe ben rappresentare la stagione di quest’anno? Bella l’idea di riassumere le Conversazioni 2017 in un’immagine. L’incontro tra i diversi linguaggi mi corrisponde pienamente. Sono appena uscito dalla prova generale di “Octavia. Trepanation”, l’opera di Boris Yukhananov e Dmitri Kourliandski, che porteremo il prossimo ottobre a Vicenza. Nella scena principale c’ è un’immagine formidabile, che per il suo significato simbolico potrebbe stare al centro anche della nostra stagione: un’enorme testa di Lenin alta sette metri che a un certo punto si apre per lasciar spazio a una sorta di Buddha, simbolo di pace. Un modo per dire che attraverso l’arte si possono superare problematiche di tipo sociale senza ricorrere a tensioni, sangue o violenze. Il rapporto tra democrazia, terrore, arte e rivoluzione sono temi eterni. Ho sempre pensato ai classici come al lievito per la creazione del contemporaneo. Il ciclo dell’Olimpico dovrebbe essere una fucina creativa in rapporto dinamico col presente”. Qual è il filo conduttore della sua programmazione? Non si tratta tanto di una linea contenutistica, quanto di un’indicazione progettuale. Ho voluto per la nostra manifestazione dei registi, che io definisco creatori, capaci di costeggiare orizzonti molto ampi. Perché definisce il regista un creatore? Non vedo il regista come qualcuno che s’impegna in una semplice interpretazione letteraria del testo, ma come un artista che ha un’ attitudine alla creazione e quindi è in grado di misurarsi con una pluralità di linguaggi che gli consentono di affrontare il suo lavoro in una prospettiva fatta di letteratura, immagini, musica e movimento. La specificità del Teatro Olimpico ha sempre posto dei problemi ai suoi frequentatori… Probabilmente perché è l’esatto contrario dello spazio teatrale contemporaneo, che è visto di solito come un contenitore assolutamente neutro, asettico, anonimo. Sulle tavole dell’Olimpico non può passare qualsiasi cosa, a meno che non si voglia tradire l’idea fondativa di Palladio, che ha creato un ambiente fortemente identitario con cui bisogna necessariamente fare i conti. Non a caso tutti gli artisti protagonisti del Festival sono stati invitati a confrontarsi con la struttura e la specificità di questo luogo straordinario. Robert Wilson, con” Hamletmachine”, inaugurerà ufficialmente il 14 settembre il 70° ciclo dei classici. Un artista che già l’anno scorso lei aveva voluto a Vicenza… Robert Wilson rappresenta per me il maestro, la stella polare, l’incarnazione di quell’idea completa e composita di teatro di cui le parlavo prima. La sua presenza è luce, stimolo, creatività, bellezza. “Hamletmachine”, su testo del grande autore tedesco Heiner Müller, ritorna in scena dopo più di trent’anni nella nuova versione realizzata per il 60° Festival di Spoleto dall’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Uno dei problemi della stagione olimpica sta nel mettere insieme passato e presente, provincia e mondo, giovani e meno giovani. Ce la farà? E’ una scommessa nella quale siamo impegnati dallo scorso anno e che già ci ha dato alcune indicazioni. Sicuramente c’ è un pubblico da ritrovare. I giovani per esempio. Nei prossimi mesi cercheremo di metterli al centro di una serie d’iniziative che li vedrà allo stesso tempo protagonisti e spettatori. Un buon motivo per non perdere le “Conversazioni 2017”? L’originalità della proposta, unita alla capacità di fare rete con numerose manifestazioni internazionali come l’Holland festival, il festival dei Due Mondi di Spoleto e il festival siciliano dei Due Mari, con cui abbiamo in programma la “Medea” di Seneca interpretata da Micaela Esdra per la regia di Walter Pagliaro, ci consente di proporre in anteprima allestimenti che difficilmente sarebbero arrivati a Vicenza. Ciò significa aprire la città a un vento più fresco e cosmopolita, senza per questo rinunciare a quell’idea di classicità intesa come lievito del tempo presente. Un cruccio? Non essere riuscito a coinvolgere quanto avrei voluto le realtà artistiche del territorio, con le quali siamo tuttavia in contatto con l’intento di mettere a punto percorsi e progetti in vista del calendario 2018.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Suggerimenti