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«Gli islamici
parte integrante
della società
veneta»

In ogni moschea del Veneto si assiste ad un confronto aperto tra coloro che sostengono la necessità di preservare un’identità islamica sentita come minacciata e coloro che invece rivendicano la necessità di essere parte integrante della società in cui vivono ed in cui i loro figli crescono. Ogni singolo migrante è combattuto tra l’attaccamento alla tradizione e l’apertura al nuovo, al cambiamento. Il confronto nasce dalla spinta di una generazione emergente che interroga il rapporto che i genitori intrattengono con le tradizioni e la società in cui vivono. Ad essere indirettamente messa in discussione è l’idea stessa di comunità islamica così com’era stata elaborata dai genitori quando, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, hanno iniziato ad aprire le prime sale di preghiera. Per capire l’importanza di quella che i musulmani preferiscono chiamare “moschea”, è necessario interrogarsi innanzitutto sulla funzione che ricopre la religione nel processo migratorio. Da un indagine che io personalmente avevo fatto in 2015 per una tesi sui finanziamento delle associazioni islamiche in Italia, e più precisamente in Veneto, risulta che per molti migranti, la religione islamica rappresenta una protezione contro quelli che i vari musulmani incontrati nel corso del tempo della mia ricerca definiscono “gli eccessi” della società italiana. Per tanti uomini, giunti in Italia anni fa, la moschea rappresentava dunque “la prima porta a cui bussare” in quanto punto di riferimento “per ogni persona che si perde, che perde il cammino”. La moschea, per riprendere le parole del nuovo presidente del centro islamico di Vicenza, Rom Abderrahim, è come “una candela che illumina il cammino del musulmano in tutti i sensi”. Una domanda banale quanto fondamentale si pone infatti con sempre più urgenza alla prima generazione, quella dei padri migranti: “Che cosa fare di fronte a figli che si sentono italiani e che sembrano allontanarsi ogni giorno di più?”. Rispondendo alla domanda c’è chi sostiene la necessità di preservare l’identità attraverso un maggiore isolamento e un codice comportamentale ancora più stretto o; c’è invece chi, dall’altra parte, che rivendica la necessità di uscire dalla marginalizzazione attraverso un nuovo ruolo nella società italiana, che passa necessariamente tanto per un riconoscimento da parte delle istituzioni, quanto per un’assunzione di nuove responsabilità da parte dei musulmani stessi. La mancanza di riconoscimento e legittimità da parte delle istituzioni, insieme ai continui discorsi anti-islamici di media e politici, è uno dei fattori che contribuisce a rafforzare il procrastinarsi di discorsi e atteggiamenti vittimistici e di chiusura in numerose moschee in Italia. Tra l’altro, è bene ricordare che le comunità, non potendo partecipare all’8 per mille, vivono quasi esclusivamente dei contributi dei fedeli.L'unica via di uscita sembra oggi rappresentata dai giovani di seconda generazione, come è stato richiesto negli due atti siglati a Torino e a Firenze, capaci non solo di parlare alla società in cui vivono, ma anche di sottrarsi all’approccio vittimistico in cui si son rifugiati una parte di coloro che hanno gestito le moschee fino ad oggi. Il primo ostacolo sulla via del rinnovamento sta nel fatto che, ed eccezione di qualche caso, “i vecchi” non hanno nessuna intenzione d’abbandonare il controllo dei luoghi che hanno aperto per dare spazio a nuove forze che in molti casi metterebbero rapidamente a nudo la loro inadeguatezza. Ma l’esito del confronto all’interno delle moschee italiane dipenderà anche dalle risposte delle istituzioni pubbliche, spesso gestite da politici ed amministratori, pagati anche con i contributi dei musulmani, che non hanno, addirittura, il coraggio o la capacità di riconoscere che l’islam è ormai parte integrante delle città venete che amministrano.

Mustapha Ouanit

Membro del consiglio amministrativo dell'Unione degli immigrati di Vicenza.

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