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We Are Lane

I 122 anni del Vicenza. Una città, una tribù

Lanerossi Vicenza-Marzotto Valdagno al Menti
Lanerossi Vicenza-Marzotto Valdagno al Menti
Lanerossi Vicenza-Marzotto Valdagno al Menti
Lanerossi Vicenza-Marzotto Valdagno al Menti

Stavolta "We Are Lane" ospita un articolo pieno d'amore per il Vicenza firmato da Andrea Mainente, mio compagno di bevute e professore di Storia (con la S maiuscola) che qui ricorda cos'è e cosa sarà sempre il Vicenza per la città, un omaggio per i 122 anni di storia, un legame culturale prima ancora che sportivo. Tempo di lettura 4 minuti, ma spesi bene perché Andrea con questo testo, torna all'origine del tutto, ci fa ascoltare i rumori di una Vicenza che in un secolo ha attraversato i mutamenti delle epoche e di una squadra nata in un rione dove fede cristiana e pallone si incrociavano ogni giorno. Pare di sentirle quelle monache che di lamentavano per el balòn che sbatteva sui muri della chiesa. Non è forse una questione che ci riguarda tutti? 
Grazie Andrea, grazie alla rivista Contrasti per aver concesso la pubblicazione di un articolo che consiglierei di far leggere-studiare in tutte le scuole.



Vicenza, la guardi e velata sfugge. Soltanto chi sia asceso al suo colle sacro può forse dire di averci capito qualcosa di più, alla maniera delle formichine che la domenica, azzimate come possono, si vedono salire sulla cima di Monte Berico, contando passo dopo passo i gradini che portano alla Madonna del loro Santuario. Da lassù Vicenza appare come una piccola Lisbona senza oceano, intarsiata da viuzze e osterie, da ramificazioni irregolari e armoniche linee neoclassiche.
Una Praga disegnata da Palladio, reale e immaginifica allo stesso tempo, fatta anche di magie, a cui nessuno conviene di non credere, e di speranze radicali, accompagnate come un’ombra dall’atavica rassegnazione della sua gente. Una terra che si ama e si odia: con astio quando, filistea come poche sanno essere, pare restringersi nel suo perbenismo di facciata; ma anche con l’intenerito affetto che ti cava a forza il luogo natale. Che come tutti i luoghi natali porta su di sé le palpabili tracce di coloro che lo vivono.
Uno di questi segni, senza il quale a fatica si può comprendere l’anima viva del capoluogo veneto, ha a che fare con il calcio, il cui legame con la città si trova inciso sulla sua scorza di mattone da ben prima che le regole del gioco fossero messe per iscritto. Chi passi per Via Corpus Domini, laddove un tempo dimoravano le agostiniane, facilmente si imbatte in una prodigiosa premonizione di quello che sarebbe stato il rapporto tra i vicentini e il pallone: un chiassoso sbalonare di piazza, tra le urla scoccate da parte a parte, con le imprecazioni di chi subisce e l’irriverente esultanza di chi ha messo a segno un punto in più.
Così già alla metà del ’700 le religiose si lamentano a tal punto per le grida che a ridosso del monastero turbano le litanie del giorno, che il podestà è costretto ad intervenire. A chiare lettere, su una lapide ancora esposta, si avverte che di lì in avanti sarà vietato «l'abuso da qualche tempo introdotto di far giuoco di palla»: troppi strepiti, impudiche eresie, moleste scazzottate. Ma, come tanti, rimane solo un monito inciso sulla pietra. A Vicenza il calcio, o come si dice, el balòn, è un abito.

Nel nominarlo il dialetto non si concentra sul gesto atletico – la possente inarcatura del polpaccio – ma sulla sfera che di quel gesto diviene l’oggetto. Fatta di stracci e di cuoio, quasi fosse l’immagine concreta del tessuto sociale di una provincia che della pelle e della lana ha fatto le sue fortune. Quella stessa provincia che in occasione del rito della partita si riversa in città, e affluisce allo stadio seguendo la dolce ansa del Bacchiglione. Lì come altrove, le vicende della squadra si raccordano agli umori della gente, e se ne accorge persino il turista, che il fine settimana la vede accalcarsi lungo il corso, dove a decine sfoggiano il biancorosso.
Lo si intuisce nei locali sulle cui pareti difficilmente manca, a mo’ di feticcio, un gagliardetto o una foto scattata negli anni d’oro di Vinicio e Savoini. Lo sanno bene tanti ex giocatori che una volta finita la carriera hanno deciso di fermarsi in un luogo che li aveva fatti stare bene. Perché il Vicenza non è il patrimonio di una minoranza di fanatici, ma di tutti coloro che per scelta o per eredità vi hanno sacrificato fegato, bile e polmoni: lo si mastica ai pranzi tra parenti e lo si beve agli aperitivi nel tardo pomeriggio.
Questa sorta di intima dipendenza arriva da lontano. «La mia lei è del 1902» recitava uno stendardo di curva, e in effetti è proprio agli albori del XX secolo che questa storia di passioni incondizionate prende vita.
Nasce l’ A.C. Vicenza che nei primi decenni, oltre a uno scudetto soffiato dalla Pro Vercelli, assiste ad un susseguirsi di presidenze aristocratiche, quasi un assaggio di quel titolo di “Nobile provinciale” che si sarebbe guadagnata tempo dopo. Tra la guida del conte Piovene e del marchese Roi, il giovane club berico passa dal campo di Borgo Casale al nuovo stadio, e nella partita inaugurale a fare luce è il talento di un sedicenne che per la prima volta indossa i calzari dei grandi. È Romeo Menti, per tutti Meo, che gioca senza sapere che il destino, per una qualche ironia, lo porta quel giorno a battezzare il campo che prenderà poi il suo nome. Ma nel ’35 Superga è un monte sconosciuto e il granata una varietà di rosso che non gli appartiene. L’immortalità è ancora di là da venire.

Tuttavia solo nel Dopoguerra le vicissitudini dell’ A.C.VI. prendono una svolta che le assicurano una menzione negli albi d’onore. Le Parche, quelle divinità che nel mito greco filano dì e notte le sorti degli uomini, cominciano a tramare qualcosa di più di qualche anonimo campionato, servendosi per i propri scopi delle tasche e delle aspirazioni di una loro filiale terrena: nel ’53 il lanificio Rossi acquisisce la società in apnea di liquidi, e dà vita all’antesignana di tutte le sponsorizzazioni della storia dello sport nazionale.
Ma giacché all’epoca farsi della pubblicità con le maglie da gioco non è ancora permesso, il conte Gavazzi, con tutta l’astuzia di cui la nobiltà è capace, aggira l’inghippo legale e trasforma la squadra in una viva costola del colosso laniero di sua proprietà. È l’inizio dell’epopea del LaneRossi Vicenza, i cui giocatori sfoggiano la iconica ‘R’ annodata sul petto, in qualche modo una vera e propria “casacca d’azienda”. Poi tanti campionati di serie A di fila, qualche piazzamento sorprendente e un paio di salvezze agguantate in modo rocambolesco.
È nel biennio ’76-’78 però che si consacra il mito, quando, dopo una retrocessione, il Vicenza ritrova in fretta la via della massima serie attingendo a forze nuove.
Come un piccolo miracolo, la neopromossa raggiunge un insuperato secondo posto e lo fa sorprendendo coi balenii di una squadra costruita in realtà con «un pugno di lenticchie». Il presidente Farina mette assieme un gruppo non certo da copertina: qualche onesto uomo di fatica, pedine scartate da altri club, vecchie volpi di categoria e giovani promesse come Giorgio Carrera, libero di ruolo e di spirito. Infine – e soprattutto – Paolo Rossi. L’allenatore Giovan Battista Fabbri ha l’intuizione per cui ogni amante del calcio gli deve almeno un po’ della propria gratitudine, quella di spostare al centro dell’attacco un’ala dai menischi fragili quale è il Rossi appena arrivato dalla Juve.
Reinventato come agile perno offensivo, il numero 9 fa spaziare i compagni su tutto il fronte degli ultimi 30 metri. In un periodo in cui si predilige piuttosto una prima punta di stazza, quella in atto pare una graziosa rivoluzione: sono le premesse di ciò che verrà ricordato come il Real Vicenza, orchestrato al meglio da Gibì Fabbri, con quel suo vezzoso soprannome che pare quasi una meritata firma d’artista. Persino un inappuntabile critico come Gianni Brera deve abbassare lo schermo dello scetticismo: al termine di una partita scende nello spogliatoio del Menti per congratularsi col mister e gli confessa «veramente non avrei mai creduto che una squadra di provincia giocasse al calcio come ha giocato il Vicenza».
Questa strana banda, solida in difesa e trainata dalle reti di Pablito, segna un’epoca e un immaginario collettivo. E l’eco di quel mito risuona ancora nei bar, quando la nostalgia fa decantare la splendida formazione che arriva ad un soffio dalla Juventus campione d’Italia: Galli-Callioni-Lelj-Guidetti è l’incipit di una cantilena arcinota, che pare quasi una preghiera; uno di quei Sequeri miracula srotolati da lingue che hanno poca dimestichezza anche con l’italiano, ma ripetuti con la convinzione di chi, pur ai margini dell’impero, al miracolo di un calcio totale ci ha assistito veramente.
Ecco, quel Lanerossi che nel campo si lanciò in invenzioni armoniche e fantasiose, come proiettando sull’erba le misure e gli equilibri palladiani, non ha mai vinto un campionato, e forse non gli sarebbe stato possibile senza scardinare gli ordini dello sport popolare per eccellenza. E però ha realizzato cose così incredibili da meritarsi ammirazione un po’ ovunque in giro per l’Italia, anche dagli stessi rivali in campo, perché – come ebbe a dire il granata Pulici – giocare col Lanerossi era un piacere. Anche per gli avversari.
Questa Atalanta ante litteram è tuttavia un carillon fragilissimo e di fatti s’incaglia quasi subito: per ostinata ambizione il presidente Farina sfida apertamente la Juve pur di trattenere Pablito, il cui cartellino apparteneva per metà ai bianconeri. Alle buste la Nobile porta a casa la sfida con la Vecchia Signora, sborsando cifre esorbitanti per l’epoca e per le proprie possibilità. È dunque una vittoria di Pirro, alimentata dalla tragica tracotanza di chi per una volta crede di aver uccellato le regole di un mondo in cui vincono sempre le grandi.
Segue l’inizio della fine: molti giocatori vengono venduti per esigenze di cassa, la squadra si sfalda, e il Lane in un paio di stagioni si ritrova ad annaspare in serie C. La hybris del vecchio Farina, che non aveva voluto privarsi di quella letale ballerina da area di rigore, si paga cara. È come se il filo del destino si fosse clamorosamente inceppato in qualche nodo madornale.

Cominciano così anni di risultati malinconici in cui, se pure si arriva a sfiorare l’erebo del semiprofessionismo, un regalo non manca: chi in quegli anni bazzica per il Menti ha la fortuna di veder esplodere Roberto Baggio, il secondo pallone d’oro lanciato da quelle parti, con le sue spontanee e incontenibili manifestazioni di un genio fulminante e mostruoso. Eppure, navigando di amarezza in amarezza, è proprio nella più infima delle categorie che cominciano le premesse per il secondo grande ciclo della storia del Vicenza. Anche stavolta sotto l’ala protettiva di un telaio: Pieraldo Dalle Carbonare, proprietario della Trevitex, rileva e mette le basi di un gruppo decisivo.
Il drappello capitanato da Di Carlo e Lopez si scuote di dosso le melme della terza serie e in men che non si dica si libra verso la vittoria della Coppa Italia. È il 1997, a guidarli al trionfo il più tipico dei veneti, Francesco Guidolin, fatto di poche parole e berretto ben calcato sulla fronte. L’anno dopo tocca alla cavalcata europea in Coppa delle Coppe.
Sono per molti i migliori anni della vita, quantomeno di quella sportiva, ma anche stavolta la fantasia, come tutte le cose più belle, non dura a lungo, e forse la sensazione che questo incanto generazionale sia sul punto di interrompersi qualcuno già ce l’ha in quel di Londra, assiepato nel settore ospiti di Stamford Bridge: prima al gol ingiustamente annullato a Pasquale Luiso; poi quando, al minuto 76, una carambola di Hughes si insacca alle spalle di Brivio. È 3 a 1, il Chelsea di Vialli vola in finale, mentre il Vicenza rientra mesto a casa, come se sul più bello di una danza attesa per anni fosse improvvisamente saltata la puntina.

Il presidente Dalle Carbonare, nel frattempo, ha problemi finanziari che lo costringono ad un passo indietro. Già nell’estate del ’97 il club viene ceduto al gruppo d’investimento britannico ENIC e il Vicenza diventa così il primo club italiano in mani straniere: anche questa volta, nel bene o nel male, apre la strada che in molti avrebbero seguito negli anni successivi.
La storia però presenta un’altra energica virata. Con gli inglesi l’idillio non sboccia, e dopo un rapido saliscendi di retrocessioni-promozioni, la squadra abbandona la massima serie senza più farvi ritorno. Un rigurgito di “vicentinità” preme per un cambio ai vertici, così nel 2004 l’ENIC lascia la società nelle mani di Sergio Cassingena – presidente del gruppo supermercati SISA – inizialmente accolto da più parti come un liberatore. Ma i vicentini, abituati a vincere col tessile, non trovano feeling con chi commercia in alimentari: sotto Cassingena, presto soprannominato con scherno casolin, come l’ultimo dei ‘salumieri’, si inaugura una parabola discendente fatta di salvezze affannose, retrocessioni e insperati ripescaggi.
Eppure tra frustrazioni e fiaschi clamorosi qualche sprazzo di luce c’è: sembra quasi che Vicenza le storie e i personaggi, al di là degli effettivi meriti sportivi, li attiri di tanto in tanto come una calamita. Ci si aggrappa allora ai numeri di Schwoch, si assiste all’unico gol di Piermario Morosini tra i professionisti, e la città si stringe attorno a Julio Gonzáles dopo il terribile incidente d’auto che ne stronca anzitempo la carriera.
Una città che manca nella massima serie da oltre vent’anni (2000/2001) e che però nel sostegno non è mai venuta meno. Dopo il fallimento del 2018, ancora una volta, la mano a cui aggrapparsi per ottenere la grazia proviene da chi per mestiere fabbrica vestiti. In un territorio in cui i campanelli sono disseminati di ‘Lanaro’ e ‘Battilana’ (chiaro lascito di antenati filatori), Renzo Rosso rileva la società. Dopo il lanificio Rossi e l’iconico Pal Zileri, è il turno di Diesel: prima una stagione di assestamento, poi il ritrovato Lanerossi riagguanta la serie B, e lo fa sotto la guida di quel Di Carlo che da giocatore ne aveva segnato le sorti più felici negli anni ’90. La piazza ritrova entusiasmo: guarda, attende e spera.
Eppure, qualcosa va storto. La stagione successiva il Vicenza ottiene un tranquillo 12° posto ma quella ancora dopo (2021/2022) si trova inaspettatamente in fondo alla classifica e infine retrocede di nuovo in C, pur avendo costruito a inizio anno una rosa per puntare ai playoff. È un duro colpo, che invano il club prova a superare aumentando il budget per il mercato e allestendo formazioni competitive per riagguantare immediatamente la serie B. Arriva, magra consolazione, la Coppa Italia di Serie C (contro la Juventus Next Gen), ma la risalita è più difficile del previsto – e dello sperato. Ad oggi il L.R. Vicenza è terzo, a -21 dal primo posto, e confida nella lotteria dei playoff che a fine anno decreterà la quarta promossa in Serie B.
Parafrasando Guido Piovene, conoscere la Basilica, la Rotonda e il teatro Olimpico attraverso gli studi è una conoscenza imperfetta. E così si può forse dire per il calcio. Non basta un almanacco a descriverne la storia e non basta un saggio a riviverne le gesta. No. Bisogna vederlo a Vicenza, fosse anche solo per tentare di capirci qualcosa di più. Magari partendo da Monte Berico, da cui lo sguardo abbraccia una provincia che da secoli accorre sotto il mantello mariano quando qualcuno deve mandargliela buona.
Su quel piazzale, dove sono sorti gli amori di tanti, e che ha accolto i sospiri, le passioni e le attese nel silenzio di chi conosce le cose già prima che vengano dette.
Da questa balaustra che dà su un piccolo mondo si distingue nettamente il Romeo Menti, e da generazioni a quel luogo vanno le speranze, forse persino le preghiere, dei suoi tifosi. Che le cose precipitino o che si celebrino vittorie, «per sempre fedeli»: alla “tribù” cantata dai Derozer, al destino o alla Madonna di Monte Berico. In questo caso, in fondo, fa poca differenza.

Andrea Mainente

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