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La spunta blu

Vivere senza computer: si può ancora?

Una scena dal film "Una storia vera"
Una scena dal film "Una storia vera"
Una scena dal film "Una storia vera"
Una scena dal film "Una storia vera"

«Caro Savonarola».
«Prima la data: quanto sarà?»
«Quasi il 1500».
«Quasi il 1500?».
«Lo sai tu quanto ne avimmo?»
«Che scrivi? Ti arriva una lettera, Roma quasi 2000?»
«Allora leva la data».
«Caro…? Non è nostro amico…».
«Santissimo Savonarola, come sei bello!»
«Santissimo Savonarola! Quanto ci piaci a noi due! L'esclamativo ce l'avrà?».
«Allora, se non si sa se ci sta l'esclamativo, “scusa la volgarità!”».
(Roberto Benigni e Massimo Troisi nel film “Non ci resta che piangere”)

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Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera. Intendo letteralmente una lettera, cellulosa e inchiostro, busta e francobollo: un oggetto da toccare, annusare volendo, da strappare o piegare, da buttare o conservare, non solo da leggere. Non ne ricevevo da molto tempo, non di scritte a mano, almeno. Non so voi, ma a me emoziona ancora riceverne. Una pagina di quaderno a quadretti, come quelli delle mie figlie, ma firmato da una signora anziana, Teodora. In poche righe voleva raccontare la sua avventura per tentare di rinnovare la carta di identità. Come prigioniera della fiera dell’est branduardiana, Teodora è rimbalzata dalla circoscrizione all’anagrafe, da qui all’edicola fino alle poste centrali che al mercato mio padre comprò, per sentirsi dire che è indispensabile una prenotazione, ma che la prenotazione si può fare solo al computer. E pazienza se un’anziana il computer non ce l’ha: si facesse prenotare l’appuntamento da figli, nipoti, vicini di casa.
Un oggetto che sembra piovuto dal passato remoto come una lettera di carta per denunciare le disfunzioni del presente e del futuro prossimo: a prima vista mi sembrava un tentativo di alzare la voce velleitario, anacronistico, novecentesco. L’abbiamo pubblicata sul quotidiano, un paio di colonne nella pagina delle lettere, che accompagna i necrologi in uno spazio, in coda al giornale, che sbagliando pensiamo tutti sia riserva di caccia esclusiva di lettrici e lettori non più giovani. E invece. Per qualche sortilegio, quel foglio di quaderno compilato con la penna stilografica dall’inchiostro blu ha preso il volo, come prendono il volo soffiati via dal vento i volantini nelle scene di certi film per andare a sbattere sugli occhi del protagonista. Al termine del suo volo la lettera è finita sulla piazza di Facebook, dove per una curiosa legge del contrappasso è diventa virale: potere della carta e dell’inchiostro, che ancora resistono anche in un mondo di messaggi immateriali. E Teodora è stata rapidamente promossa paladina del web, innescando moti di indignazione e manifesti del rispetto dovuto agli anziani.
A me questa lettera, tra cronaca e favola, ha ricordato un film girato qualche anno fa da David Lynch. Si intitolava “Una storia vera” e per protagonista aveva Alvin, un anziano dell’Iowa, che decide di andare a fare visita al fratello malato, ma scopre di non poter rinnovare la patente di guida, così intraprende un viaggio di 400 chilometri al volante di un piccolo trattore, di quelli che si usano per tagliare l’erba. Durante la sua avventura scopre di essere diventato un idolo per molti americani che lo attendono lungo le strade per incitarlo. Là i mezzi di trasporto, qui i mezzi di comunicazione: sono storie che mettono in scena un cortocircuito tra epoche, generazioni, tra macchine e donne e uomini. Dopo venti mesi di pandemia ci siamo illusi che la vita possa essere liofilizzata dentro schermi e collegamenti da remoto, salvo poi scivolare su piccoli pezzi di carta o di plastica che definiscono la nostra identità e la nostra agibilità sociale, come una banale, insulsa carta di identità, senza la quale non possiamo nemmeno ritirare un pacco postale. In una città come Vicenza, dove vivono più di ventimila famiglie mononucleo, vale a dire con una sola persona, per lo più composte da persone anziane o molto anziane, questa che sembra un’inezia rischia di innescare una bomba a orologeria. Siamo ancora liberi di vivere senza un computer e una connessione a internet? In tempi di profonda e a volte lacerante riflessione su libertà, salute, sicurezza, non varrebbe la pena di dare una definizione normativa al diritto alla disconnessione? Non passa giorno senza che qualcuno rivendichi la libertà di non vaccinarsi o di non dover esibire una certificazione sanitaria. Ma siamo ancora liberi di vivere sconnessi? Oppure senza un computer e un accesso a internet siamo destinati, come Teodora, a restare esclusi e reclusi, fino a dover persino rinunciare alla nostra identità pubblica? Qualche timido sforzo è stato compiuto in certi contratti di lavoro, inserendo clausole spazzate via dal virus come il vento con le foglie. E chi ci garantisce quando le tecnologie, invece di facilitarci la vita, ce la complicano, come accaduto con il rinnovo di questa carta di identità? E se dovesse ripetersi su larga scala un blackout come quello che ha paralizzato Facebook, Instagram e WhatsApp per ore che sono parse infinite nei giorni scorsi? Non intendo certo demonizzare strumenti dai quali dipende anche la mia vita: vorrei solo assicurarmi pezzi di vita da vivere senza tecnologie. E però il punto di caduta sta proprio in quel verbo, “dipendere”: dove finisce il diritto e dove inizia il dovere, dove finisce la libertà e dove inizia la necessità in questa mappa dai confini sempre più intrecciati, sfumati, confusi? Troppe domande, lo so. Intanto vado a piegare, rimettere nella busta e conservare in un cassetto quella lettera dal sapore e dal profumo antichi, scritta con l’inchiostro su un foglio di carta: riceverne una è ancora un’emozione.
Ps: una lettera scritta a mano è anche un buon esercizio per evitare di pubblicare commenti o inviare messaggi di cui poi si finisce per pentirsi. Una lettera scritta a mano richiede tempo, strumenti, materiali, una sorta di rito che consente di meditare su quello che si sta per scrivere, di smussare spigoli, di limare righe, di abbassare la temperatura, di trovare la misura e la distanza. Se scrivessimo certi messaggi come fossero vecchie lettere, eviteremmo liti e incomprensioni. Anche a costo di scusarci preventivamente per eventuali volgarità, come Roberto Benigni e Massimo Troisi nella irresistibile lettera a Savonarola: «Con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo, puoi muoverti».
 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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