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La spunta blu

Van Gogh, Rigoni Stern e gli aceri nani di Campo Marzo

Vincent Van Gogh, "Uliveto", 1889
Vincent Van Gogh, "Uliveto", 1889
Vincent Van Gogh, "Uliveto", 1889
Vincent Van Gogh, "Uliveto", 1889

"Vedo ovunque nella natura, ad esempio negli alberi, capacità d’espressione e, per così dire, un’anima".
(Vincent Van Gogh)

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Curioso, però. Curioso che in una delle dieci città più infestate da smog e polveri sottili in Italia si decida che la priorità del 2021 sia abbattere non uno, ma sessanta alberi. Gli sfortunati aceri di Campo Marzo, mai troppo amati dai vicentini nella loro ventennale carriera, escono di scena senza che in giro si vedano cortei funebri né levate di scudi: nemmeno una lacrima. Forse davvero di Campo Marzo interessa poco o nulla, forse a volte serve una svolta muscolare, anche a costo di imbastire un’operazione di eugenetica botanica, per liberarsi di quegli alberi nani e sciancati, come gli spartani si liberavano dei neonati deformi lanciandoli dalla sommità del monte Taigeto. Non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui per salvare l’albero dell’Albera capitava che i residenti si incatenassero, mobilitando persino la penna di Mario Rigoni Stern, che dai boschi degli urogalli compose il suo addolorato abbraccio al platano sacrificato sull’altare di una rotatoria: «Per noi che scendevamo dall’Altipiano quell’Albera era un segno di riferimento, l’inizio della città, ma anche un luogo di appuntamento. Ora gli automezzi cacciano via alberi e uomini. Non ci sono più città per chi va a piedi». Le rotatorie ci hanno messo spesso lo zampino, come accadde con il pioppo nero di Borgo Scroffa, ghigliottinato in un blitz notturno con la polizia che fermava il traffico (e i manifestanti) a un raggio di un chilometro dal patibolo. La medesima sorte toccò al maestoso cedro del Libano di viale Trieste o, per restare nei paraggi di Campo Marzo, ai platani di Santa Libera. Sarà pure un segno di questi tempi in cui non facciamo che ripeterci che “i problemi sono altri”, ma se i problemi sono altri era una priorità demolire qualche decina di alberi che hanno la sola colpa di non essere belli come sarebbero dovuti essere? Non dispongo di pollici verdi, tra qualche acrobazia riesco a tenere in vita a malapena basilico e salvia in vasi da giardino, non so dire se non ci fosse altra soluzione, se fossero malati, sintomatici o asintomatici, o se non potessero essere almeno riciclati altrove, però qualcosa di simboli capisco e so, come tutti, che un albero è simbolo di vita. Anche i modi contano: abbatterli a colpi di benna quasi fossero il muro di un ecomostro di cui liberarsi è come prendere a calci una persona anziana o bisognosa di cure. L’ambizioso piano per trasformare questo quadrante del centro storico, da piazzale De Gasperi all’ex Eretenio, non inizia dunque con un atto d’amore, ma con un atto di forza, in silenzio: le ruspe si sono messe all’opera a sorpresa, senza che il progetto sia mai stato condiviso o almeno presentato in consiglio comunale. Se, come garantiscono sindaco e assessori, rappresenta un salto di qualità, perché non parlarne con franchezza e trasparenza, prima di ammucchiare tutta quella segatura, e non dopo, quando non resta che togliersi sassi dalle scarpe e sgresende dalle dita per le polemiche sui social? “Radici e tronchi d’albero” è il titolo dell’ultima tela dipinta da Vincent Van Gogh prima di togliersi la vita. Qualche mese fa un ricercatore ha ricostruito con buona approssimazione il luogo esatto in cui avrebbe dipinto quel groviglio di terra e legno a Auvers-sur-Oise, non lontano da Parigi. Alberi e natura protagonisti fino all’ultima pennellata. «Vedo ovunque nella natura, ad esempio negli alberi - scrisse al fratello Theo - capacità d’espressione e, per così dire, un’anima».
Abbiamo la memoria corta ed è probabile che tra non molto di quegli aceri non conserveremo che un pallido ricordo, come ci siamo dimenticati dei platani, dei pioppi e dei cedri. Forse davvero torneremo a passeggiare a Campo Marzo all’ombra dei bagolari, forse faremo pure festa, come sembra suggerire quel nome, che a noi veneti ricorda el bagolo. Nel frattempo, però, dobbiamo fare i conti con quella sequenza di aceri abbattuti dalle ruspe, che certo una festa non è e che fatichiamo a spiegare ai nostri figli dopo averli cresciuti con l’idea che gli alberi siano sacri, simboli di vita, esseri viventi simili agli esseri umani, in equilibrio perfetto tra terra e cielo, fatti di corteccia e linfa come noi siamo fatti di corpo e anima. 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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