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La spunta blu

Il Giorno dello Sciamano

Una scena del film "Quarto potere" di Orson Welles
Una scena del film "Quarto potere" di Orson Welles
Una scena del film "Quarto potere" di Orson Welles
Una scena del film "Quarto potere" di Orson Welles

“A quanto mi ricordo tu hai sempre parlato di accordare alla gente i suoi diritti, come se si trattasse di un tuo dono personale, in compenso dei servizi ricevuti” (“Quarto potere”, Orson Welles)

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Buone notizie dal fronte occidentale. Il 2021 sta iniziando alla grande, a dispetto delle apparenze. Se il buondì si vede dal mattino, forse tra qualche tempo potremmo trovarci tutti a celebrare il Giorno dello Sciamano come l'inizio di una nuova era: l'era dei diritti e dei doveri digitali. Spesso senza volerlo e comunque sempre spinto da interessi personali e da un insopprimibile narcisismo, potremmo persino arrivare a riconoscere che anche Trump ha fatto cose buone. Nel day-after dell'assalto a Capitol Hill sul filo spinato di una storia ancora da decifrare nella sua esatta portata, rimangono impigliati i brandelli di un abito sempre più stretto e scomodo: quello indossato dalla libertà di espressione sulle piattaforme dei social media. Come dobbiamo definire la decisione di inibire e poi addirittura bannare l'uomo più potente della Terra come se fosse l'ultimo ubriaco rimasto al bancone del bar all'angolo? Molti dicono censura, altri dicono semplice policy di un'azienda privata, pochi la trattano per quella che è: un maldestro, penoso e tardivo tentativo di salire sul carro del vincitore Biden, ripulendosi la coscienza dopo aver giocato alla macchina del fango per molto tempo, accumulando ricchezze e potere come forse non si è mai visto prima nella storia dell'umanità. Mentre a Pechino e Mosca se la ridono ordinando quintalate di popcorn per assistere comodamente al grande show dell'implosione della democrazia, non possiamo far finta che quello che sta accadendo non abbia a che fare con i nuovi strumenti di comunicazione digitale, che stanno a monte e a valle dell'assalto al Congresso americano.

Dopo aver oscenamente flirtato con The Donald, ora Facebook e Twitter lo abbandonano come estremo segnale della fine di un'epoca: triste, solitario y final, Trump si vede sfilare dalle mani il joystick con cui ha menato le danze per quattro anni. E dunque, perché ora e non quattro anni fa? Cosa è cambiato? Ma soprattutto: basta questo presunto ravvedimento in zona Cesarini o serve qualcosa di più? Cosa regola la scelta di cancellare un cinguettio o di cacciare un ospite indesiderato? La risposta è che decide un algoritmo costruito sulla base di una policy aziendale, simile ai regolamenti di quei ristoranti che accettano solo clienti con la giacca e la cravatta. C'è dunque una “legge” dei privata più forte della legge pubblica? Trump è stato espulso da Twitter per aver definito “patrioti” quelli che altri chiamano “terroristi”: il suo è un reato di opinione? Può usare quella parola in un comunicato stampa spedito dalla Casa bianca, ma non può twittarlo: tutto regolare? Un algoritmo è dunque più potente del primo emendamento della costituzione americana (o dell'articolo 21 della costituzione italiana). La realtà è che ricorderemo il Giorno dello Sciamano per quello che nella tragedia greca è il meccanismo dell'agnizione: l'improvviso riconoscimento della vera identità di un personaggio. Dopo aver vagato alla cieca per una decina d'anni come Edipo per le vie di Tebe, finalmente Facebook e Twitter si sono rivelati per quello che sono: editori. E non a caso molti trumpisti stanno migrando verso Parler, il social dei suprematisti bianchi e dei sovranisti di ogni latitudine, proprio come migrano firme e lettori che non si riconoscono più nella linea editoriale di Repubblica. E questa è un'altra ottima notizia: un po' di pluralismo in un anacronistico e insidioso regime di oligopolio. Quindi alla domanda “possono farlo?” la risposta è “sì, certo che sì, eccome se possono”, ma proprio per questo devono anche rispettare le leggi sull'editoria come le rispettano tutti i mezzi di informazione dei paesi democratici.

La favola della disintermediazione è stata una lunga illusione servita per guadagnare milioni di iscritti e miliardi di dollari. Mentre lo Sciamano si accomodava sullo scranno più alto del senato a stelle e strisce, da qualche parte nella Silicon Valley qualcuno gettava la maschera, con tanti saluti all'ideologia “uno vale uno”: anche i social media non possono non comportarsi come tutti gli altri mass media. Perché lo dice la parola: sono mediatori. Proprio per questo non possono non soggiacere alle leggi che regolano gli altri strumenti di comunicazione di massa, dalla radio alla tv fino ai vecchi, cari, carissimi giornali di carta. Servono regole, molte già ci sono, alcune buone, altre meno, ma sono tutte state concepite prima di internet. Serve una Magna Charta dei diritti e doveri digitali. Ma non la possono scrivere Mark Zuckerberg o Jack Dorsey, a capo non di repubbliche democratiche ma di monarchie assolute. Serve un processo democratico, una costituente internazionale che scriva le regole del gioco: Stati Uniti e Unione europea sono già un buon punto di partenza. Le regole non sviliranno lo spirito libertario con cui è nato il web, tutt'altro: serviranno proprio a difendere la libertà e chi oggi vive nel mondo digitale a disagio per la deriva della post-verità, per il razzismo e la violenza latenti o manifesti, per l'odio e gli odiatori. Le regole servono a buttare un po' si acqua sporca, senza disfarsi anche del bambino. Il momento è questo: aspettare ancora significa replicare il caso Trump all'infinito. Se l'assalto a Capitol Hill sarà servito a qualcosa, magari tra non molto ci troveremo a commemorare il Giorno dello Sciamano come il punto più basso della storia democratica americana, ma anche come l'inizio di una nuova epoca: se così sarà, prometto che ogni 6 gennaio darò fondo alla mia scorta di Earl Grey d'annata per alzare al cielo della libertà d'espressione una tazza di tè fumante con impresse a caratteri dorati le corna dello Sciamano.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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Caro Gian Marco,
mi sembra il segno definitivo dei tempi che la discussione sull’Epifania di Capitol Hill sia già passata dal tema del potere e della democrazia in America (e quindi dappertutto nel mondo occidentale) al tema del ruolo dei social-media e della loro facoltà di escludere e “censurare” (sì, no, forse...).
La disintermediazione sarà stata anche una lunga illusione, come dici tu (concordo soprattutto sul fatto che è servita ai Signori dei Social per fare miliardi di dollari), ma non riesco ad avere il tuo ottimismo sulle magnifiche sorti e progressive che ora ci attendono, una volta svelato l’inganno. I Signori dei Social non accetteranno mai di avere il ruolo e la responsabilità degli editori: e invocheranno la vastità della platea per sostenere una volta di più il loro disimpegno.
Del resto, prova a immaginare: sul GdV di oggi c’è una notizia (come quasi ogni giorno) che riguarda la realtà parallela chiamata Social Network. Nella fattispecie una cosa che per semplicità possiamo chiamare “furto di identità” (un tale che ha aperto un profilo a nome di un altro). Il presunto ladro è stato condannato a una multa, a margine scatterà la richiesta di risarcimento al presunto derubato. Ma te lo immagini che all’improvviso e per tutti i miliardi di possibili contenziosi ovunque sul pianeta, anche Mark Zuckerberg sia chiamato a rispondere in solido come “editore”? Io non riesco a essere fiducioso come te. Non credo che accetterà mai queste regole, per il semplice fatto che non gli conviene, perderebbe tempo e denaro.
Ma soprattutto, i padroni dei Social resteranno irresponsabili, perché così com’è costruito il mondo Social conviene a molti, anche se non a tutti e specialmente non agli editori dei mezzi di informazione “tradizionali”. E soprattutto conviene a innumerevoli caste politiche continuare a bypassare la mediazione di noi saggi e avveduti giornalisti per mantenere la facoltà di dire quello che vogliono senza filtri e senza controlli. Figurati se l’esclusione dell’uomo già più potente del mondo li frenerà. Il margine di manovra resta enorme.
E poi, qualcosa vorrà dire se l’esenzione da possibili doveri in quanto editore dei vari Zuckerberg o Jack Dorsey (il boss “progressista” di Twitter), è stata garantita proprio dalla democrazia americana (per dirla pomposamente, com’era di moda una volta, forse adesso meno), con una specifica clausola in una legge che, come sempre avviene, è stata troppo supinamente accettata di fatto anche se magari non proprio di diritto dal resto del mondo occidentale. E forse vuol dire qualcosa anche il fatto che quando sono cominciate le schermaglie fra Trump e i Social, lui sempre minacciava di togliere quella clausola, riducendoli quindi a “semplici” editori. Mi sfugge la logica di simili sortite, visto che se così fosse accaduto il primo a rimetterci sarebbe stato il tycoon: ma forse era solo una puntata al buio, per fare intravvedere agli altri seduti al tavolo di questo poker un futuro di minori guadagni, appunto. 
Io sono convinto che un buon inizio, invece, sarebbe la riduzione delle dimensioni di aziende che sembrano oggettivamente oltre ogni pur morbida legge contro il monopolio e a favore della concorrenza. Facebook e Twitter sono troppo grandi (con i loro numerosi addentellati sempre social): ridurne le dimensioni dev’essere il grimaldello per cercare di arrivare alla situazione che sogni tu. 
Sta di fatto che oggi il problema dei Social non sono tanto le “legioni di imbecilli con diritto di parola”, di cui parlava Umberto Eco. Quello è un fastidio dal quale non è ancora troppo difficile liberarsi. Il problema è lo spostamento del dibattito pubblico dalle sue sedi di tradizione in una terra di nessuno dove vige una sola legge, quella dell’articolo quinto: chi ha i soldi ha vinto. E sennò come si spiega l’ingente utilizzo di risorse per il “management dei Social” da parte di tutti i personaggi pubblici?
Quanto al mondo ideale che tu indichi, nel quale finalmente anche i Social rispondono alle regole cui soggiacciono “gli altri strumenti di comunicazione di massa, dalla radio alla tv fino ai vecchi, cari, carissimi giornali di carta”, mi piacerebbe crederci, ma non ci riesco. Per il semplice fatto che i media tradizionali si sono sfiniti in una corsa suicida dietro alla logica dei Social. Gli esempi ormai sono innumerevoli, ma te ne cito uno avvenuto di fresco, proprio perché mette a confronto Twitter e un giornale tradizionale. A tutto svantaggio del secondo per esclusiva colpa del secondo. Il tweet lanciato da una rampante leader della destra sui fatti di Washington è stato nei due giorni successivi oggetto di molte critiche che l’hanno indotta a scrivere non un altro tweet, ma un’interminabile lettera di delucidazioni, molto aggressivamente politica. Il pezzo, di questo si tratta, è stato pubblicato a occupare tre quarti di una pagina di un quotidiano nazionale, senza commenti e senza puntualizzazioni, senza cercare per esempio la strada del contraddittorio con un’intervista. Pubblicato così, come un enorme tweet a cui non si può nemmeno rispondere. Difficile vedere un futuro per i “cari carissimi giornali”, se sul più bello si riducono al ruolo di cloni cartacei dei Social.

Cesare Galla

 

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