<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La spunta blu

Sotto il segno delle donne

La copertina del disco "Joanne" di Lady Gaga
La copertina del disco "Joanne" di Lady Gaga
La copertina del disco "Joanne" di Lady Gaga
La copertina del disco "Joanne" di Lady Gaga

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso)
.
Non ci siamo ancora sbarazzati di gennaio, ma da quel che abbiamo potuto vedere e ascoltare fin qui il 2021 promette di essere un anno nato sotto il segno delle donne, un anno con più cromosomi X che Y. E non mi dispiace affatto. L'inauguration day andato in scena a Capitol Hill è un ottimo indizio: se verrà ricordato per qualcosa, a parte le bandiere al posto del pubblico, la bibbia à la Harry Potter su cui è stato prestato il giuramento del Potus e i guanti di Charlie Brown che hanno scaldato le mani di Bernie Sanders, non sarà certo solo per il discorso di riconciliazione pronunciato da Joe Biden, con tutto il rispetto. La scena se la sono presa con allegra, sfacciata ed emozionata disinvoltura Lady Gaga, J.Lo., Amanda Gorman, Michelle, Jill, ma soprattutto Kamala Harris, specchio di quel che può diventare l’America e forse, un giorno, pure l’Italia, da sempre ottusamente ostinata nel selezionare classe dirigente maschile quando c’è da occupare un ufficio presidenziale, che sia il Quirinale o palazzo Chigi. Sono loro che hanno dominato la scaletta, hanno dettato tempi e stili, hanno lasciato il segno, hanno catturato like, pollicini e cuoricini, visualizzazioni e titoli, alla faccia (o con la complicità maliziosa) di zio Joe. Hanno versato secchiate di colore su un palco altrimenti grigio come i capelli degli anziani maschi o dei loro cappotti. Hanno abbassato e di non poco l'età media. Hanno riempito i vuoti di una cerimonia senza pubblico. Hanno giocato la partita come mai si era vista giocare in precedenza, non fosse altro che per la prima volta di una donna vicepresidente. Come se non bastasse, poche ore prima, la scena veniva rubata a un altro uomo, Donald Trump, che se ne andava dalla Casa Bianca vagheggiando un ritorno in un modo o nell’altro, ma lo faceva rozzamente, da bullo per non dire burino. E veniva surclassato da Melania, perfetta in un’uscita di scena elegante, abile a divincolarsi dall’imbarazzo procurato dall’ingombrante incapacità di ammettere la sconfitta sventolata urbi et orbi dal marito: «Scegliete l’amore, la violenza non è mai giustificata», è stato il saluto di una donna che ha esercitato il ruolo che le è stato assegnato dalla Costituzione fino all’ultimo istante, mettendo alla giusta distanza con un pugno di parole il finale eversivo di The Donald. Eppure, non aveva ancora finito di dirle, quelle parole, che a 7 mila chilometri di distanza veniva catalogata alla voce “escort” sulle frequenze di RaiUno, l’ammiraglia della televisione di Stato italiana. Il gentiluomo ispirato che aveva l’ardire di vergare l’alata definizione in aulico dolce stil novo è Alan Friedman, giornalista prezzemolino nei salotti dei talk show nostrani, capace di tutto tranne che di ripulire l’accento da Stanlio e Ollio che mostra di curare più come un marchio di fabbrica che come un vezzo. Dire escort con quel compiaciuto sorriso non solo è una volgarità gratuita, ma non rende giustizia a una donna che ha rispettato il voto di milioni di americani, riuscendo comunque a marcare la sua lontananza da certe cadute del consorte. Quel che ne è seguito è l’ormai tradizionale gazzarra di questa guerra per bande che è da tempo la politica: da un lato lo scricchiolante contegno che odora di doppia morale della sinistra, dall’altro l’indignazione caciarona della destra pronta a stanare le anime candide e i sepolcri imbiancati. Ma come, definire “culona inchiavabile” Angela Merkel dà la stura al coro del politically correct planetario con interrogazioni parlamentari e richieste di interdizione dai pubblici uffici, mentre se la moglie del gran capo dei sovranisti viene definita escort è stato un inciampo linguistico? Non c’è lo scudo del “#metoo” se sei una donna di destra? Davvero il femminismo si accende a targhe alterne? Vorrei sperare di no, vorrei sperare che fossimo tutti concordi nell’avviare ai bidoni del secco dove depositiamo i rifiuti non riciclabili la parola “escort” abbinata a una first lady come Melania, come vorrei sperare che si andasse a indagare anche sugli amori più o meno segreti di Riccardo Nencini o Lello Ciampolillo, i senatori smemorati che hanno votato all’ultimo secondo la fiducia al governo Conte folgorati sulla via di palazzo Madama, non solo di Renata Polverini, altra protagonista suo malgrado di questo proemio del 2021 con la sua fuga da Forza Italia per entrare nella maggioranza giallorossa: la sua asserita e subito smentita liaison con l’ex renziano Luca Lotti, addotta a spiegone del cambio di casacca, non ha precedenti nella pur variopinta storia del giornalismo parlamentare. Eppure. Di Nencini e Ciampolillo siamo disposti a preservare quote di insondabile mistero per scrutare le scelte dell’ultimo secondo, ma per la Polverini non può esserci cono d’ombra, dev’esserci per forza una debolezza, una fragilità, un sentimento. Non è, in fondo, pure questa una stereotipata iconografia della donna in politica come esponente pur sempre di quel che un tempo si diceva essere il sesso debole? Quelli che tra molti silenzi e qualche colpo di tosse sono scivolati nelle cronache politiche di questi giorni non sono inciampi linguistici, sono tic di un mondo vecchio che annaspa dentro un mondo nuovo. In questo mondo, ad esempio, il nostro Conte dimezzato per staccare i generosi assegni promessi con il Recovery plan deve fare i conti con Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e - sempre lei - Angela Merkel. Forse mi sbaglio, ma forse no: il 2021 sembra avere più cromosomi X che Y. E siamo solo a gennaio.
gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it
 

Suggerimenti