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La spunta blu

Sessanta giorni per salvare la scuola

Una scena dal film "I Goonies"
Una scena dal film "I Goonies"
Una scena dal film "I Goonies"
Una scena dal film "I Goonies"

“L'estate sta finendo e un anno se ne va: sto diventando grande, anche se non mi va” (Righeira)

Per tutto questo favoloso mese di pallone, tricolori e maglie azzurre, mi ha tenuto compagnia una piccola banda di ragazzini. A ogni partita improvvisavano caroselli tra le case, cantavano, ritmavano, si litigavano i giocatori preferiti, si sgolavano ululando alla luna una gioia che non sapevano si potesse provare e che non sapevano contenere. Li ho invidiati: è stato il loro ballo dei debuttanti, hanno scoperto cosa significa vivere le emozioni di una festa collettiva, emozioni che si tatueranno addosso, se le sentiranno sulla pelle e nell'anima, le racconteranno a figli e nipoti, come hanno fatto i bambini del 1982. Forse pure di più. In un tempo breve per una vita, eppure lungo per una vita ancora breve come la loro, sono passati da un incubo planetario come il virus a una gioia popolare come la vittoria della Nazionale. Li guardavo tenersi stretti tra le siepi, correre a piedi nudi avvolti da bandiere cucite dalle nonne, ridere di questo Natale fuori stagione, dei tramonti lenti, lunghi, larghi, delle cicale e dei grilli, dell'anguria lasciata sul tavolo per correre a vedere se era fuorigioco, delle partite infinite che si arrampicano fin dentro le notti con i tempi supplementari e poi i rigori: che pacchia, luglio col bene che ti voglio. Sembravano i Goonies, increduli davanti al tesoro scoperto nella pancia di una cittadina pigra dove pareva non dovesse mai succedere nulla di memorabile. Questa improvvisa e inattesa sbornia è arrivata come una ricompensa per mesi terribili che hanno soffocato il fuoco degli anni migliori, quelli senza pensieri, con il sole in fronte: “Ragazzini per strada a giocarsi la vita – canta Jovanotti – che quando sembra finita, magari è appena iniziata”. E ora che la coppa l'abbiamo alzata e baciata e abbracciata, ora che abbiamo vinto, che abbiamo suonato e ballato, ecco, ora che si fa? Con un tempismo cinico e crudele, quasi avesse atteso un giorno in più per non rischiare di passare inosservato, proprio mentre l'euforia sfumava come la coda di certi tormentoni estivi, è arrivato il pagellone della scuola italiana. Alla maturità si sono presentati studenti con competenze da terza media: farebbero fatica a comporre un telegramma o a calcolare lo sconto di una maglietta durante i saldi. Questo, a spanne, è il drammatico risultato delle prove Invalsi, parola di rara bruttezza che misura la valutazione del sistema scolastico italiano. Tutti gli addetti ai lavori, dal ministro dell'istruzione al più precario dei professori, non hanno dubbi: colpa della didattica a distanza. La dad ha scoperchiato le fragilità della già fragile scuola italiana, malmessa prima della pandemia, ma ora con le ossa rotte. Non è così ovunque: in Francia il livello di conoscenze e competenze è più alto, perché a un certo punto, durante la seconda ondata, hanno chiuso tutto, ma non la scuola; in Italia sappiamo come è andata: la scuola è stata la prima a chiudere e l'ultima a riaprire. In un mercato del lavoro sempre meno protetto dai confini nazionali, i deficit segnalati dalle prove Invalsi peseranno quando dai banchi di scuola si sposteranno sulle scrivanie degli uffici: le differenze di due e forse tre anni di lezioni a singhiozzo faranno la differenza con i colleghi europei. E quindi, ora che abbiamo vinto, ora che abbiamo alzato la coppa in faccia agli inglesi, ora che ci siamo abbracciati e baciati come non facevamo da un anno e mezzo, ora che i nostri ragazzini hanno avuto la loro festa di popolo per la Nazionale, ora, ditemi, che si fa? Ce l'abbiamo un piano? Aspetteremo a vedere che succede, sperando un po' nelle ondate del virus, un po' nei vaccini, un po' in una botta di culo come sul fuorigioco nel gol dell'Austria o sul tiro di Lukaku sul fondoschiena di Spinazzola? Non sappiamo nulla dell'anno che verrà: se gli studenti entreranno in aula, tutti o qualcuno o nessuno, se ci saranno più mezzi di trasporto di un anno fa, più insegnanti, più banchi, più bidelli, più aule, più palestre. O sarà tutto come sempre, come prima, come se nulla fosse accaduto in questi 18 mesi? Sappiamo solo che i nostri figli hanno imparato meno e peggio. Mancano sessanta giorni al ritorno a scuola: un piano ancora non c'è, questa è l'unica certezza. Occhio, però, perché l'estate prossima la Nazionale non giocherà: non ci sarà un'altra festa per ricompensare i ragazzi rimasti senza scuola, non ci sarà un premio inatteso in fondo a un altro anno terribile. Non sarà sempre Natale fuori stagione.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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