<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La spunta blu

Rousseau, George Clooney e la democrazia diretta

Una scena del film "Le idi di marzo"
Una scena del film "Le idi di marzo"
Una scena del film "Le idi di marzo"
Una scena del film "Le idi di marzo"

“Vanno avanti almeno dai tempi di Giulio Cesare. Tocca allo spettatore decidere chi sia Bruto e chi Cesare”. Questa frase è pescata dal film “Le idi di marzo”, la dice George Clooney e mi sembra una buona introduzione alle questioni sollevate nella lettera infilata sotto la porta di questa stanza da un lettore, Maurizio Nati, interessato alle dinamiche della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta. In coda dico un paio di cose anch’io. Il dibattito è aperto.

 

"Si sa che la Costituzione Italiana la prevede in alcune forme, quali ad esempio i referendum, ma io vorrei soffermarmi in particolare sulle conseguenze dell’uso che ne è stato fatto ispirandosi al pensiero “illuminista” di Rousseau, da cui il nome della nota piattaforma.
Ho letto che la democrazia diretta rappresenta lo strumento più idoneo nel contrastare la "degenerazione oligarchica" dei partiti dato che, eliminando il monopolio del potere legislativo, riduce la pressione delle lobby di interesse sui partiti. Ebbene, io non sono d’accordo con questa affermazione, ed anzi penso che sia la democrazia diretta, o almeno l’uso distorto che ne è stato fatto recentemente, ad avere forti connotazioni oligarchiche. Ne è un chiaro esempio l’ultimo referendum indetto sulla piattaforma Rousseau per decidere o meno la partecipazione del M5s al governo Draghi. Mi sembra perfino superfluo sottolineare l’evidente e perfino grottesca manipolazione del testo per indirizzare l’esito della consultazione; non è la prima volta che accade, ma nonostante l’evidenza alcune decine di migliaia di persone hanno partecipato ugualmente.
C’è poi un altro tipo di referendum che io giudico negativamente, cioè quello palesemente inutile, come quello indetto dalla Regione Veneto nell’ottobre del 2017 per l’autonomia; era evidentemente propagandistico così com'era evidente che non avrebbe dato niente di più o di meno alla causa rispetto a quanto stava già avvenendo a livello nazionale, tanto è vero che, nonostante la partecipazione numerosa e l’esito plebiscitario di quel referendum siamo al punto di partenza, quasi come ad un gioco dell’oca.
Concludo, dicendo una cosa, che vale anche per qualsiasi forma di governo: non è tanto o comunque non solo lo strumento che determina la qualità del risultato, ma lo è soprattutto la qualità di chi ne è stato fatto interprete, e quindi bisogna stare attenti a non farsi irretire da pifferai magici quand’è ora di votare, se possibile.
Se lo ritiene opportuno, ne faccia pure sintesi, conservando naturalmente lo spirito originario del discorso".
Maurizio Nati
.
Rispondo con alcuni appunti sparsi:
a) La democrazia rappresentativa ha certamente vissuto stagioni migliori di questa, ma pur tra molte prudenze e qualche gesto apotropaico, possiamo dire che le notizie circa la sua morte erano quantomeno affrettate. Non vedo in circolazione strumenti che offrano garanzie e trasparenza sufficienti per poter pensare di sostituire il parlamento con i referendum sulle piattaforme digitali.
b) Non voterei su Rousseau nemmeno a una riunione di condominio. Dopo gli attacchi hacker e i rilievi del garante per la privacy, lasciare traccia della propria volontà su quella piattaforma e credere al risultato finale è un atto di pura fede. E però vorrei spezzare una lancia a favore di Rousseau. Mi spiego. Ogni volta che i Cinque stelle annunciano una consultazione si mette in moto il carosello di sarcasmi e indignazione: sarà mai possibile che i destini di un Paese da 60 milioni di abitanti come l’Italia siano appesi ai volubili umori di alcune migliaia di iscritti? Tradotto: pochi deciderebbero per molti. In realtà stiamo parlando di un partito, che come dice la parola, rappresenta una parte, piccola o grande. C’è chi riunisce organismi interni, come la direzione o l’assemblea (è il caso del Pd). Oppure c’è chi si affida all’intuito del leader, come la Lega o Forza Italia: non sappiamo se abbiano convocato un direttorio o un cerchio magico, se abbiano consultato l’oroscopo o gli ultimi sondaggi, se abbiano interrogato un oracolo o un aruspice, ma sappiamo che Salvini e Berlusconi hanno preso una direzione per conto dei loro partiti ed è quello che ci interessava. Non scambierei, quindi, il voto su Rousseau con i destini di una nazione. Si tratta semplicemente di un processo decisionale interno a un partito, in cui guarda caso la base aderisce sempre al senso di marcia indicato dai vertici, con un’eccezione trascurabile che risale ormai a sette anni fa. Se a loro sta bene così, l’importante è che ci dicano in tempi ragionevoli cosa vogliono fare.
c) Il referendum veneto sull’autonomia ha avuto la funzione di una bilancia: serviva a pesare un sentimento diffuso e a mostrare a tutta Italia quanto quel sentimento pesasse. Come tutti i referendum si portava dietro una forte dose di propaganda, che all’epoca sembrava anche a me dominante, ma che con il tempo ho ridimensionato. Quel quesito puntava i riflettori su alcuni meccanismi dell’architettura istituzionale e democratica italiana che la pandemia ha definitivamente portato in primo piano: da 12 mesi non passa giorno senza che vengano al pettine i nodi irrisolti del rapporto tra Stato e Regioni, dalla sanità alle regole del commercio, dall’acquisto dei vaccini alla programmazione delle stagioni turistiche. Temo che nemmeno questo governo, pur con quattro ministri veneti a bordo, avrà modo di trovare un nuovo equilibrio: se il buongiorno si vede dal mattino, assegnare la delega alle autonomie e la delega al sud a due diversi esponenti dello stesso partito sembra un modo astuto per annullare le forze centrifughe. E però un equilibrio, prima o poi, va trovato.
d) Non butterei via il bambino con l’acqua sporca. La stagione della democrazia diretta nasce dal rimbalzo contro il muro di gomma di un certo modo di fare politica: le leggi elettorali “porcate” senza le preferenze e con i listini bloccati, alcuni processi decisionali opachi e calati dall’alto, una crescente distanza tra paese reale e palazzo autoreferenziale, per non dire delle liturgie ingessate del bicameralismo perfetto. La battaglia per i referendum a quorum zero promossa a Vicenza quindici anni fa, così come l’utopia delle consultazioni digitali nascono da un desiderio di partecipazione, che sarebbe il sale della democrazia e della libertà. Non disperderei lo sforzo per allargare il perimetro del potere legislativo, a patto di individuare strumenti adeguati, sicuri, trasparenti, certificati. Vorrei tenere gli occhi sempre bene aperti quando mi trovo un volante in mano, e non doverli chiudere appellandomi a una fede cieca. E vorrei disporre di tutte le informazioni che mi possono aiutare a votare la cosa giusta: vogliamo ricordare come andò a finire il primo referendum popolare più o meno duemila anni fa, in Medioriente, quando un certo Ponzio Pilato rinunciò a decidere e dopo essersene lavato le mani, chiese alla folla chi avrebbe preferito salvare tra Gesù e Barabba?
gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

Suggerimenti